Viviamo l'epoca dell'ultimo uomo?

Viviamo l’epoca dell’ultimo uomo?

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Nella “Prefazione” dello “Zarathustra”, Nietzsche annuncia l’avvento del superuomo (1). Tuttavia, nel Paragrafo 5 della stessa “Prefazione” (2), il profeta Zarathustra, rivolgendosi al popolo che brulicava nel mercato, parla ad esso di «quanto vi è di più spregevole», ossia dell’ultimo uomo: una figura alquanto significativa, sebbene trascurata, se non finanche ignorata dalla critica filosofica.

Ma chi è questo “ultimo uomo” che viene presentato come l’effettiva contrapposizione esistenziale, in un vero senso logico-speculativo, nei confronti del superuomo? Il filosofo ne parla con termini angosciati, poiché dice che «si avvicina il tempo in cui l’uomo non genererà più stelle». Quello sarà il tempo «dell’uomo più disprezzabile, quello che non sa più disprezzarsi». Addirittura, con il suo avvento la terra «è diventata piccola e su di lei saltella l’ultimo uomo, che rende tutto più piccolo. La sua razza è inestinguibile, come quella della pulce di terra; l’ultimo uomo vive più a lungo di tutti».

L’ultimo uomo, continua Zarathusta-Nietzsche, è colui che crede di aver inventato la felicità. È colui che ammicca con i vicini, è colui che cerca di andare d’accordo con il mondo, che affronta la vita senza impegnarsi troppo, che crede di essere intelligente perché crede di sapere tutto. È colui che crede di non avere capi e che considera gli altri tutti uguali: in altre parole, costui sembrerebbe l’uomo “moderato” del nostro tempo, che gode di quello che ha materialmente, che non si espone mai, ma che crede di avere il buon senso di capire tutto.

Queste sono in sintesi le espressioni con cui Nietzsche tratta dell’ultimo uomo. Di primo acchito, sembrerebbe che si tratti di una prefigurazione profetica di poco conto, poiché questo “personaggio” manca di un qualsiasi approfondimento ontologico e sociale, e poiché apparentemente le definizioni approcciate appaiono vaghe o fumose. In realtà, in questo breve paragrafo ci sono espressioni forti e piuttosto inquietanti, nel senso che lasciano sgomenti.

In primo luogo, l’ultimo uomo è considerato l’uomo «più disprezzabile»; in secondo luogo, la sua razza è detta «inestinguibile come quella della pulce», in quanto vive più a lungo di tutte. Ciò significa che l’ultimo uomo è massivamente presente attorno a noi e che anzi, visto il fallimento storico del superuomo, esso è diventato, in quanto antagonista di questi, il vero “trionfatore”, che si è propagato nella nostra società come, appunto, una pulce. Si tratta di capire allora perché esso ha avuto ed ha queste caratteristiche così profondamente negative.
Per cercare di comprendere queste affermazioni così lapidarie e davvero profetiche, è opportuno risalire ad un precedente libro di Nietzsche: la “Gaia scienza”.

In questo libro si trova il celeberrimo aforisma 125 (che, da solo, sarebbe stato probabilmente bastevole a rendere Nietzsche un pensatore immortale): quello del “folle uomo”. Costui, sempre in un mercato (il palcoscenico prediletto dei grandi annunci nietzschiani), si mette a gridare: «cerco Dio! cerco Dio!». Molti presenti, non credenti in Dio, cominciano a ridere beffardamente, chiedendo al “folle uomo” dove Dio si fosse perso, se si era nascosto, se era emigrato e così via.

Di fronte a tali «grandi risa», il folle uomo trapassa costoro con i suoi sguardi, annunciando la morte di Dio ed urlando che noi tutti abbiamo compiuto l’assassinio degli assassini, e che «quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli». Egli aggiunge poi che non ci fu mai «un’azione più grande», domandandosi se non fosse troppo grande per gli uomini un’azione così poderosa e se non si dovesse «noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa» (3).

Già dalla semplice lettura di queste frasi, si comprende come agli uomini del mercato, atei e consapevoli della morte di Dio, non importasse nulla di tale evento, poiché lo consideravano un fatto di trascurabile importanza, convinti che “la parabola di Dio” sulla terra fosse ormai giunta al termine. Del resto, tutto il Settecento illuministico di Hume, Voltaire, D’Holbach e tutto l’Ottocento materialista di Bauer, Feurbach, Marx e così via, avevano sotterrato Dio come il prodotto di una alienazione, di un antropocentrismo capovolto, di un esorcismo nei confronti di paure ataviche che l’uomo aveva sempre avuto (malattie, terremoti, tempeste, ecc…). Tali uomini si mostrano perciò insensibili e deridenti verso la portata di tale decesso. Il folle uomo, invece, palesa proprio nel suo atteggiamento scomposto ed urlante un sentimento drammatico, che si avverte nell’annuncio di tale evento epocale.

I comportamenti del tutto contrapposti fra gli uomini del mercato ed il folle uomo di fronte al medesimo fatto storico rivela l’opposizione radicale fra due tipi: ovverosia, fra l’ultimo uomo e il superuomo. L’ultimo uomo è colui al quale nulla importa della morte di Dio, e di conseguenza di ciò che ha un qualsiasi valore spirituale. Si compiace della propria condizione esistenziale di piccolo cabotaggio, appagato di quello che il mercato gli offre. Il superuomo è lo stesso folle uomo che si rende conto di dover compiere un salto sovraumano per essere all’altezza dell’assassinio degli assassini. La proposta di accettare una vita superomistica è un invito che scaturisce da un terribile dramma: per ciò stesso, diventa di per sé una proposta eroica.

L’ultimo uomo sa, come il superuomo, che Dio è definitivamente morto, ma si limita a prendere atto della distruzione della Verità e dei valori e si crogiola nella dimensione di un vuoto spirituale in cui nulla ha più senso. Egli è, come direbbe Nietzsche, un nichilista completo, però passivo, in quanto accetta la dimensione spirituale della debolezza e del “lasciarsi andare”.

Heidegger lo dipinge magistralmente nel suo libro “Essere e tempo” quando descrive fenomenologicamente l’esistenza inautentica, che deietta l’esserci «a livello degli oggetti» (la “Verfallenheit”) e che si disperde nella dimensione di un Si passivante in cui dominano la chiacchiera (il saper tutto senza saper nulla), la curiosità (il veder tutto senza vedere nulla) e l’equivoco. Non vi è più nulla né del proprio io né del sé, inteso come apertura all’essere.

Ultimo uomo e superuomo sono accomunati comunque dal rifiuto di una qualsiasi forma di Trascendenza, sebbene la scelta di vita sia del tutto difforme. L’ultimo uomo viene giudicato da Nietzsche come «il più disprezzabile degli uomini» proprio per la sua superficialità, e la conseguente miseria spirituale che gli fa ritenere la morte di Dio un piccolo incidente della storia.

Il superuomo, pur approdando egli stesso al nichilismo, diventa un nichilista attivo e perfetto, e fa propria eroicamente la distruzione di tutti i valori (della morale cristiana) trasmutandoli in altri che dicono sì alla vita, con l’accettazione cioè di tutto ciò che la vita dà e toglie, nella dimensione dell’eterno ritorno dell’uguale.

Scrive Evola, in alcune pagine geniali, che colgono in una sintesi illuminante tale impostazione esistenziale: «la via del superuomo è la via di un continuo, inesorabile superamento di sé, di un comandare a sé, di un disdegnare non solo il piacere, ma la stessa felicità, un saper dire no anche quando un’enorme forza in noi vorrebbe il sì. Il superuomo può, sì, far tutto, aprirsi ad ogni sorta di passione, ma le passioni in lui non sono più “passioni”: sono come possenti belve ridotte in catena, che balzano e si affermano solo quando egli vuole. L’intima essenza del superuomo può piuttosto definirsi come “un’ascesi per l’ascesi stessa“, come un’estrema quintessenziata accumulazione della volontà di potenza intesa come valore e fine a se stessa» (4).

Il superuomo, aggiunge ancora Evola, è «un camminare sul filo del rasoio», col perenne pericolo che egli si trasformi in un ossesso, ossia un demone che annienta se stesso come il Kirillov dei “Demoni” di Dostoievskij. Il superuomo, ignorando il sovrasensibile, in quanto crede di essere fondamento di se stesso – cioè di nulla, come diceva Max Stirner -, non ha difese di fronte ad esso, immerso com’è nella sua pienezza di sé, che egli vorrebbe autocelebrare nella dimensione dell’eterno ritorno dell’uguale senza Dio.
Una ascesi per l’ascesi senza il fine della Trascendenza, in quanto per Nietzsche tutto è finito, compresi Dioniso e l’eterno ritorno dell’uguale. Alla fine, può esserci lo sbocco verso il dramma della follia, come avvenne per Nietzsche stesso, per Wagner, per Hölderlin ed altri geni che impostarono la loro esistenza nella celebrazione di sé.

La configurazione ideale del superuomo si è poi concretizzata in una ideologia-forza che è stata propria dei ceti medi europei che rifiutavano la minaccia di una proletarizzazione prospettata fanaticamente dai social-comunisti. Per questo, paradossalmente, essa si è commutata da semplice meta esistenziale aristocratica in una possente marea sociale anti-egualitaria: resta il fatto che il superuomo è un’idea moderna creata da Nietzsche, ma che non era mai esistita nel passato storico.

Nella “Volontà di potenza” (5), si comprende chiaramente come il filosofo, pur non dichiarandosi individualista, ponga la sua filosofia verso una gerarchia che opera sulla comunità (da lui chiamata «l’armento») e non nella comunità. Proprio in questo senso, il tipo del superuomo non è mai esistito storicamente. Del resto, lo stesso nazifascismo, pur ispirandosi in parte al suo pensiero, ha poi perseguito i suoi obbiettivi nel cercare di costruire o uno stato corporativo o una “Volksgemeinschaft”, una comunità popolare di diritto. La tragedia del superuomo era, proprio a causa della nullità del suo fondamento, inevitabile. Essa è durata il tempo per il «terrificante abisso» di un meriggio.

Sulle spoglie del superuomo è invece sopravvissuto, diffondendosi a dismisura, l’ultimo uomo: si potrebbe allora immaginare anche la rapida dipartita del «più disprezzabile fra gli uomini», giacché anche costui fonda la sua ragion d’essere sulla morte di Dio e sul nulla. In realtà, tale figura è molto più problematica di quanto si possa immaginare. Nietzsche avverte che questo uomo è inestinguibile come la pulce e che la sua razza «vive più a lungo». Essa è, invero, metastorica: come la figura del servo, il che significa che è sempre stata presente nella storia umana sin dalle origini.

Il primo straordinario esempio dell’esistenza di questo personaggio lo si può leggere probabilmente in forma compiuta nel mito della caverna di Platone, in cui uno schiavo – liberato attraverso un processo di iniziazione filosofica – è condotto a cogliere la luce dell’Essere (il Mondo delle Idee), per venire poi deriso e spregiato dai suoi ex-compagni schiavi, accusato di avere gli occhi guasti.

Come al mercato gli ultimi uomini, «piccini e miserabili, innumerevoli, mosche velenose» (6), applaudono i solenni saltimbanchi ed i commedianti, così gli abitanti della caverna, attaccati ai pregiudizi ed a modi di vita volgari, attribuiscono grandi onori ai conoscitori della caverna che la dirigono. Del resto lo stesso Gesù, il “santo anarchico” come lo definì sempre Nietzsche, non fu poi condannato dal parere della plebe che gli preferì Barabba? Mille altri possono essere gli eventi storici in cui l’ultimo uomo mostra il suo volto meschino.

Verrebbe da porsi a questo punto la domanda attorno alla provenienza sociale di questa figura. Ma sarebbe una domanda inutile, in quanto non è possibile collocarla all’interno di questa o di quella classe sociale. Una ricostruzione della sua appartenenza in termini hegelo-marxiani sarebbe infatti impossibile, perché l’ultimo uomo alligna ovunque: per sua natura è interclassista.

Certamente non è equiparabile alla figura del servo, poiché egli gode o meglio crede di godere della sua esistenza, ritenendo di essere libero. Si potrebbe dire che è un individuo semi-colto, che si aggira ovunque (soprattutto al mercato) e che è sempre complice del potere del momento. Il suo orizzonte è se medesimo. In questo senso, potrebbe essere considerato come una neoplasia, un male costante che ha accompagnato l’umanità sin dai suoi albori.

Potrebbe essere paragonato al cavallo nero descritto da Platone nel mito della biga alata. Un cavallo nero, rappresentante l’anima concupiscibile materiale, che comunque appartiene in forme d’intensità diverse a tutti noi umani. L’ultimo uomo è colui allora che ci spinge verso il basso ed è dentro di noi: da esso, bisogna liberarsi. Guénon, nel suo mirabile saggio “La grande parodia o la spiritualità alla rovescia” (7), lo indica come l’uomo della contro-iniziazione e dell’anti-tradizionalismo. È l’uomo della quantità contro la qualità, della cupa materialità contro una qualsiasi tensione spirituale. È il nemico che si deve combattere, cominciando da dentro noi stessi.

(di Flores Tovo)

Note:
1) Oggi, soprattutto per coloro che fanno riferimento al "pensiero debole" di Gianni Vattimo, per la traduzione della parola "Übermensch" si adopera il termine oltreuomo, ma noi preferiamo la traduzione più comune e nota di superuomo, che troviamo più in sintonia con la veduta del filosofo tedesco. Cfr. F. Nietzsche, "Al di là del bene e del male", Newton Compton Editori, Roma 2014.
2) F. Nietzsche, "Così parlò Zarathustra", Newton Compton Editori, Roma 2014, pag. 33-35.
3) Le citazioni riportano le parole dell'aforisma 125, in F. Nietzsche, "Gaia scienza", Newton Compton Editori, Roma 2018.
4) J. Evola, "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo", Edizioni Mediterranee, Roma 2008, pag. 163-65.
5) Si vedano i frammenti che vanno dal numero 281 al numero 287, in F. Nietzsche, "La volontà di potenza", Bompiani Editore, Milano 2006, pag. 161-164.
6) "Delle mosche al mercato", in F. Nietzsche, "Così parlò Zarathustra", op. cit., pag. 56-58.
7) In R. Guénon, "Il regno della quantità ed il segno dei tempi", Edizioni Adelphi, Milano 2006, pag. 261-266.

                                  

                                        

                                            
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