“Il posto fisso è stata la nostra ossessione e di quelli prima di noi, l’Italia sta agonizzando su quel sistema”, dice Riccardo Pozzoli, manager ed ex fidanzato di Chiara Ferragni.
Ora, la fonte non è sicuramente tecnico – scientifica, ma a mio modesto parere va citata comunque. Essa è solo l’ultimo atto di un percorso culturale che dura da decenni contro un intero modo di vedere l’economia (ma direi addirittura la vita). Quell’approccio “statale” e basato sulla sicurezza del posto di lavoro, che ha caratterizzato la storia d’Italia praticamente fin dagli albori, anche prima della Rivoluzione Fascista la quale, indubbiamente, diede una svolta importante all’impianto.
La cultura popolare di massa è ormai profondamente consolidata sulla criminalizzazione concettuale del posto fisso, ritenuto come un retaggio di approccio nullafacente e improduttivo. Una “roba da terroni” per usare un gergo chiarificatore. E non è un caso che uno dei maggiori successi al botteghino di Checco Zalone, attore cinematografico ormai lanciatissimo da anni, sia proprio la presa in giro del “posto fisso”, che in Quo vado? (2016) diviene pretesto per una serie di gag effettivamente esilaranti.
Ma è davvero così? Il posto fisso è davvero quel male assoluto che ci hanno raccontato per decenni? Se guardiamo alla storia d’Italia, con i posti fissi (ma anche quelli variabili, e non dimentichiamo che il 35% dell’economia italiana ne era soggetta, pur con tutte le garanzie contrattuali del caso, fino al 1992) la nostra Nazione è prima divenuta un Paese industriale, poi ha raggiunto il quinto posto tra le principali potenze economiche al mondo.
Ovviamente non tutto era rose e fiori, e l’Italia stessa ebbe anche le sue belle crisi, come quella inflattiva degli anni Settanta, alcune fasi di maggiore disoccupazione, una pubblica amministrazione che ha vissuto sì le sue epoche d’oro (fino agli inizi degli anni Ottanta) ma anche l’inizio di una crisi qualitativa che dura ancora oggi (pur presentando ancora delle importanti eccellenze, soprattutto nella Sanità).
Ma non c’è dubbio che garantire un gettito di reddito sicuro per una certa quota di popolazione sia un modo di approcciarsi all’economia – tipicamente keynesiano – che permette di mettere e far girare nel merdato interno quella quantità di denaro in grado di sostenere consumi, attività commerciali, dinamismo generale. Quei redditi “sicuri” ritornano in circolo e sono una base importante per quelli “variabili”.
Non credo che la storia del nostro Paese possa essere contestata da questo punto di vista. Il regno della precarietà, per meglio dire la tirannia della precarietà a cui siamo tutti soggetti da una trentina d’anni, ha indebolito l’economia, i risparmi e i guadagni degli italiani. L’Italia non è più la quinta potenza economica al mondo, ma lotta per rimanere tra le prime dieci. Negli anni Sessanta viaggiava a ritmi di piena occupazione, oggi si affanna per non aumentare i 5 milioni di poveri che abitano il suo territorio e cerca di far scendere al di sotto del 10% la disoccupazione.
Chiaramente, nessuna società può vivere esclusivamente di posti fissi. La ricetta essenziale è sempre quella di un equilibrio, basato sulla consapevolezza che ciascuno di noi è diverso dall’altro. Esistono i dinamici, gli intraprendenti, e gli onesti lavoratori quotidiani. Così come esistono i disonesti, da perseguire in qualsiasi contesto socio-economico.
Ma quelli non sono un buon motivo per fare un bilancio tra vantaggi e svantaggi. L’Italia del posto fisso aveva degli svantaggi, ma nel complesso era una delle Nazioni più ricche del mondo, ben superiore a quella odierna del dinamismo e della precarietà.
(di Stelio Fergola)