Vent'anni di euro: vincitori e vinti

Vent’anni di euro: vincitori e vinti

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1. I dati dello studio

L’euro è entrato in circolazione nel 1999 a livello di moneta elettronica, e nel 2002 è giunto nelle tasche dei cittadini i cui Paesi hanno scelto di adottare la moneta unica continentale. A distanza di due decadi da questa introduzione, uno studio tedesco firmato dal think tank CEP (Center for European Policy – Zentrum für Europäische Politik), del febbraio 2019 – tradotto in italiano da Contropiano.org-, ha decretato una sentenza inappellabile, inoppugnabile: grazie all’euro, ogni tedesco ha guadagnato oltre 23mila euro, mentre ogni italiano ne ha persi quasi 74mila.

Vent'anni di euro: vincitori e vinti

«Secondo lo studio, il problema della competitività tra i vari Paesi dell’Eurozona “rimane irrisolto” e “deriva dal fatto che i singoli paesi non possono più svalutare la propria valuta per rimanere competitivi a livello internazionale”. Dall’introduzione dell’euro, un’erosione della competitività internazionale ha portato “a una minore crescita economica, a un aumento della disoccupazione e al calo delle entrate fiscali. La Grecia e l’Italia, in particolare, stanno attualmente attraversando gravi difficoltà a causa del fatto che non sono in grado di svalutare la propria valuta”», si legge su HuffPost Italia.

La differenza fra le parti (la perdita dell’Italia ed il guadagno della Germania, in questo caso) è assolutamente abissale. Ciò significa che questa operazione monetaria – i cui fautori e sostenitori hanno sempre detto essere necessaria per una vera integrazione continentale – ha generato vincitori e sconfitti. Non ha quindi provveduto ad amalgamare armonicamente le economie dei Paesi. Anzi, ne ha evidenziato le differenze, facendone a sua volta nel trattamento delle singole nazioni, ed ignorando del tutto le loro peculiarità produttive.

Vent'anni di euro: vincitori e vinti

La scelta dei due protagonisti, per enucleare le “differenze di rendimento” della moneta unica sulla vita dei cittadini, non è casuale. La Germania, infatti, risulta essere la grande vincitrice rispetto all’adozione dell’euro, mentre l’Italia la grande sconfitta. Per la prima, fra 1999 e 2017 c’è stato un guadagno complessivo di 1.893 miliardi di euro, pari (come già esplicato sopra) a 23.116 per ogni abitante. Per la seconda, nella medesima finestra cronologica, vi è stata una perdita totale di ben 4.325 miliardi di euro, pari a 73.605 pro capite.

Dati parlanti, dai grafici fondamentalmente speculari, che estrinsecano una realtà che i cittadini hanno sperimentato, e continuano a vivere, sulla loro pelle. La moneta unica europea ha creato profondi squilibri interni al continente, ha generato una competizione sfrenata ma dalle regole non uguali per tutti nella loro applicazione (come, ad esempio, nel sistema bancario) ed ha sottomesso a regole contabili del tutto discutibili le economie dei vari Stati. Le loro fattezze e le sfumature, assai differenti, sono per ciò stesso impossibilitate a calzare con la medesima comodità i panni di una moneta tutt’altro che efficiente.

L’EURO IN GERMANIA

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L’EURO IN ITALIA

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2. Commento in calce

Questo studio del CEP, a firma di Alessandro Gasparotti e Matthias Kullas, assume un’importanza fondamentale per un motivo molto preciso e finanche banale: proviene dalla Germania. Esso rappresenta dunque una sorta di onesto riconoscimento intellettuale (od ammissione di colpevolezza). Con l’adozione della moneta unica, l’Italia è stata fortemente penalizzata dalla struttura economico-monetaria che ne è derivata, e che è stata costruita, impostata e portata avanti.

Infatti, all’interno di questo meccanismo di cambi fissi, ben più rigido persino del “gold standard”, viene impossibilitata l’operazione di svalutazione della moneta nazionale (non più esistente), la quale si è sempre configurata come un’importante manovra di correzione, agente sul valore variabile di uno strumento di scambio piuttosto che sul valore intrinseco del lavoro, strumento di emancipazione.

Il sistema economico dell’Unione Europea viene in essere come un modello predatorio, basato sull’export (cioè sul mercantilismo) e sul competitivismo interno. Una strutturazione competitiva che opera sempre più tenacemente dei privati (in numero sempre minore) e dove gli Stati sono impossibilitati ad intervenire, al fine di calmierare e riequilibrare il mercato. La circolazione dei capitali e delle merci è completamente libera da vincoli, e questo ha contribuito a creare danni nel tessuto dei diritti sociali acquisiti nella seconda metà del XX secolo.

A tal riguardo, basti pensare che nel momento in cui un lavoratore italiano, o francese, o spagnolo, debba competere con i prodotti di uno – ad esempio – cinese o malese (pagato molto di meno, in relazione al proprio contesto), si ritroverà più povero, a causa di politiche aziendali tese a svalutare il lavoro stesso per trarne profitti e sopravvivere, oppure soccombere (ed in tal caso, la conseguenza sarebbe la disoccupazione). In questa logica, è altrettanto ovvio e naturale che solo i grandi gruppi, dai grandi introiti, riescano a sopravvivere.

Quindi, nel momento in cui non si può deprezzare la moneta, si deprezzano i salari. L’Italia ha patito in particolar modo questo sistema nel corso degli anni, in quanto ha adottato una moneta troppo forte per il proprio tessuto economico di piccole e medie imprese (le grandi, di dominio pubblico, sono state svendute nel corso degli anni Novanta).

La Germania, al contrario, ha goduto dell’euro perché valuta di valore inferiore al marco, e per ciò stesso favorevole alla propria impostazione votata all’esportazione. Non è un caso che gli Stati Uniti di Donald Trump abbiano preso dei provvedimenti a livello di dazi verso i prodotti industriali europei (leggasi tedeschi).

Senza considerare la fallacia di fondo dell’euro-sistema, ammessa persino da uno dei suoi creatori, Giuliano Amato. È stato dato credito e seguito alla faustiana pretesa di dare vita ad una moneta senza Stato. Una follia che Ezra Pound non esiterebbe a definire usurocratica, data anche la natura della moneta moderna. La Banca Centrale Europea, infatti, creatrice di moneta dal nulla (come ammesso in un tweet del 12 marzo 2019), è di fatto un’istituzione privata, svincolata dalla politica e per ciò stesso dal processo democratico di indirizzo delle scelte economiche.

Vent'anni di euro: vincitori e vinti

Essa ha difatti gli unici compiti di mantenere la stabilità dei prezzi e di non far superare una certa soglia di inflazione, prestando denaro con interessi su tale debito (che viene in essere tramite il prestito). Tuttavia, nel momento in cui la moneta non venga prima immessa nel circuito economico, essa non può essere riscossa. Altresì, le nazioni sono costrette a rivolgersi al mercato privato dei grandi gruppi finanziari e bancari, per l’acquisto dei loro titoli di Stato, in un meccanismo d’asta di cui Guido Grossi ha evidenziato l’assurdità e l’illogicità.

Tuttavia, chiedere agli Stati più di quanto si presti loro implica proprio che queste stesse nazioni debbano andare a cercare altrove quella somma aggiuntiva che dall’emettitore e dai compratori viene chiesta: da qui, le privatizzazioni, la deindustrializzazione e l’alta tassazione (l’Italia, al netto degli interessi sul debito, fa avanzo primario da quasi un trentennio).

Vent'anni di euro: vincitori e vinti

La combinazione di questi, e di tutta un’altra serie di fattori che sarebbe lungo enucleare ed argomentare in questa sede, ha portato ai progressivi arricchimento della Germania ed impoverimento dell’Italia. Questo studio del CEP, con adamantina semplicità, conferma tale processo ultra-ventennale, tirando fuori e mostrando i dati di una realtà oramai consolidata. Nell’attuale sistema europeo – non riformabile se non con una (improbabile) unanimità degli Stati membri, e per ciò stesso modificabile solo con ulteriori cessioni di sovranità (incostituzionali) – l’Italia ha avuto unicamente da perdere.

(di Lorenzo Franzoni)

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