Comprendere la Russia col marchese di Custine

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Il marchese Astolphe de Custine scrisse nel 1839 che andare in Russia era necessario per capire «tutto ciò che non può fare l’uomo che può tutto». Non si riferiva, in maniera diretta, a Nicola I, imperatore di Russia, quanto piuttosto alla figura dello Zar, ad una maestà incomprimibile nei limiti di un uomo.


Nel suo “La Russie en 1839”, de Custine traccia un ritratto – sotto forma epistolare – dell’antico impero zarista, ancora oggi sorgente preziosissima per capire e comprendere la Russia.


Nato nella Francia rivoluzionaria nel 1790, de Custine ha pagato in prima persona pegno per il suo rango, perdendo prima il padre e poi il nonno, entrambi ghigliottinati, durante il Terrore, mentre sua madre fu rinchiusa in un convento. Sposò a vent’anni una ragazza più piccola di lui, che dandogli un figlio morirà di parto. È facile capire – stanti tali eventi e situazioni personali – perché, per il marchese, il viaggio abbia significato un rifugio irrinunciabile.


Italia, Austria, Inghilterra e nell’estate del 1839 Russia. De Custine ha scritto pagine sul dispotismo e sul popolo russo destinate a restare immortali non solo per la loro bellezza, ma soprattutto per la loro intelligenza. La contraddittorietà dei toni delle lettere non può che essere il riflesso della complessa realtà russa, un Paese che allora copriva (come tuttora copre) un sesto della superficie terrestre, e di cui l’Europa – allora come oggi – non sapeva nulla.

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De Custine definì la Russia come «la terra più bella abitata dagli uomini più tristi». Da una parte viene riportato con sincera commozione e minuzia di dettagli il suo incontro con lo zar Nicola I, dall’altra viene dissacrata la sua magnificenza. Al tentativo di descrivere a parole la grandezza del Cremlino, segue immediatamente dopo l’espressione di un sentimento di pietà nei confronti di un popolo per cui «viene voglia di piangere».


Appena entrato in Russia – dopo inimmaginabili formalità burocratiche -, de Custine entrò in contatto con l’oppressione esercitata dagli uomini dello zar affinché potesse essere mantenuto l’ordine, e fu costretto a tenere nascoste le sue lettere per tutta la durata del viaggio. Proprio al dispotismo saranno dedicate pagine fondamentali: l’oppressione vale l’ordine? Quale può essere la sintesi di un’esistenza in un Paese dove tutto è «tetro, uniforme come in una caserma», dove si respira «un clima di guerra, ma senza l’entusiasmo, senza la vita»?

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Dalle mani e dal folle arbitrio di Ivan il Terribile, di Pietro il Grande e di Caterina II, la Russia non può essere capita se non attraverso un’ampia prospettiva storica. Lo storico e diplomatico George F. Kennan definì queste lettere «un’opera eccellente, senz’altro la migliore di tutte, sulla Russia di Stalin, e resta un libro niente male sulla Russia di Breznev e di Kosygin» – e, sarebbe necessario aggiungere, pure sulla Russia di Putin.


Non è possibile afferrare e conoscere l’attuale Russia se non si conosce la storia che l’ha caratterizzata. Non è possibile capire il patriottismo contemporaneo e l’amor proprio dei russi, e neanche la loro speciale devozione per l’autorità, se non si conosce il passato di questa immensa parte di mondo. Anche allora – mentre l’Europa correva inarrestabile verso i risorgimenti nazionali e mentre i poteri precostituiti della Restaurazione stavano precipitando – il Vecchio Continente si limitò a considerare i russi niente di meno che barbari che vivono ai margini della civiltà.


De Custine scrive a proposito con una straordinaria lungimiranza: «Questo amalgamarsi mostruoso di minuzie bizantine e di ferocità dell’orda, questa lotta tra cerimoniale da Basso Impero e selvagge virtù asiatiche generarono lo Stato portentoso che oggi si para di fronte all’Europa, e del quale essa avvertirà, forse domani, l’influenza senza poterne comprendere i meccanismi».

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È davvero sbalorditivo come queste parole, scritte nel lontano 1839, sembrino essere pronunciate da un osservatore attento del mondo contemporaneo. Oggi, infatti, le cancellerie occidentali faticano ad intrattenere (per predisposizione storica e culturale) un rapporto diplomatico pieno con la Russia, ed inoltre stanno cercando di tagliare fuori dal concerto delle potenze uno Stato che si estende per 117 milioni di kilometri quadrati.


Senza considerare che l’intero sistema mediatico occidentale irride quotidianamente – quando non si fa addirittura aggressivo – un Paese che oggi, recuperata almeno parzialmente l’enorme forza crollata assieme all’Unione Sovietica nel 1991, rappresenta a tutti gli effetti il contraltare degli Stati Uniti nei rapporti di forza mondiali (in connubio con il gigante cinese). Un Paese che ha contribuito in maniera decisa a stabilire il riequilibrio dei centri di potere, con il quale bisogna assolutamente e necessariamente dialogare.


Come lo ha fatto? Secondo i principi della sua storia e della sua cultura. Non si cade certo in una banale mitizzazione della storia nel dire che un popolo che ha resistito, in quanto popolo, a Napoleone prima e ad Hilter poi – a Mosca, a Leningrado, a Stalingrado – non poteva che risorgere come popolo dopo il collasso dell’Unione Sovietica e l’era Yeltsin. Per lo stesso motivo, Putin non può essere considerato semplicemente come un dittatore da quattro soldi come, con gravi responsabilità, i governi occidentali ed i molto compromessi mezzi di informazione hanno abituato, od hanno tentato di abituare, a pensare i propri cittadini.


Certo, sarebbe un grosso errore non riconoscere che la Russia di Putin ha mantenuto molte delle caratteristiche negative della Russia zarista e di quella sovietica, a cominciare dal controllo di ogni canale del potere nelle mani del Presidente, passando per l’impunità di taluni governatori, funzionari ed ufficiali corrotti, fino ad arrivare alle disuguaglianze economiche che rendono le città e le province così diverse tra loro (nelle campagne, ancora oggi, ci sono contadini che vivono di auto-sussistenza).


Ma può l’Occidente impartire lezioni di democrazia e di uguaglianza alla Russia, o forse il ritratto denigratorio dedicato alla “terza Roma” è soltanto un ipocrita espediente per nascondere i propri fallimenti storici e morali?


Queste lettere di de Custine ci costringono a riconoscere i nostri limiti cognitivi e politici nei confronti della Russia. Come ha scritto l’ambasciatore e storico italiano Sergio Romano: «la democrazia è ancora un modello virtuoso che l’Europa delle democrazie malate e gli Stati Uniti delle sciagurate avventure mediorientali e del nuovo razzismo hanno il diritto di proporre alla Russia? Dovremmo piuttosto chiederci: all’origine dell’autoritarismo di Putin, non c’è forse anche la pessima immagine che le democrazie stanno dando di sé stesse?».


Ma, con ogni probabilità, il più grande lascito di queste lettere, di queste missive, sta nella realizzazione e nella consapevolezza che la Russia non può essere amata o odiata a metà, e questo semplicemente perché la sua complessità – di contrasto con la sua magnificenza – ne rende impossibile ogni comprensione razionale. Insomma, come accade per i sentimenti. Del resto, fu il poeta Tjutčev a scrivere: «Non si può capire la Russia con la mente: nella Russia si può solo credere».

(di Lorenzo Ferrazzano)

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