Il Principe da Mussolini a Gramsci: un pensiero che attraversa le epoche

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A più di 500 anni dalla sua stesura, “Il Principe” di Niccolò Machiavelli, l’opera in cui è condensata e lucidamente esposta la riflessione teorica dell’autore sul potere e sullo Stato, non cessa di porre interrogativi agli studiosi, né di affascinare le numerose generazioni di lettori che, per i motivi più disparati, sono venuti alle prese con questo capolavoro di filosofia politica. Composto in un periodo di grande tensione esistenziale e intellettuale, questo trattato resta l’opera dello scrittore fiorentino più pertinente rispetto alla crisi politica dell’Italia rinascimentale, ed insieme la più aperta al futuro.

Da quando si è cominciato a leggerlo, non c’è stata un’epoca che non si sia confrontata con “Il Principe“, con le sue scomode verità. Machiavelli l’aveva composto in esilio come vademecum per i potenti interessati alla conquista dello Stato e del buon governo, nella speranza che divenisse l’antidoto alla decadenza politica a lui contemporanea. Per almeno due secoli i suoi lettori sono stati pochi, tra cui gli stessi che lo avversarono e lo proibirono. Più tardi, è diventato un libro della cultura comune, una sorta di breviario della coscienza pubblica, destinato a far maturare la consapevolezza del cittadino, al di là delle appropriazioni ideologiche del suo pensiero che sono state le più contrastanti.

Non deve dunque stupire, né apparire paradossale, che proprio al “Principe” si richiamino due uomini che hanno scritto la storia del Novecento, sebbene l’uno agli antipodi rispetto all’altro: Benito Mussolini e Antonio Gramsci.

Il Duce, in un suo intervento pubblicato nel 1927, nell’ambito delle celebrazioni del IV centenario dalla morte del diplomatico [1], affermava che il pensiero politico del grande fiorentino era più attuale che mai, in quanto la natura umana rimane immutabilmente crudele ed attaccata al proprio interesse, nonostante mutino i tempi e gli aspetti esteriori della vita. Inoltre, ribadendo il concetto dell’ “homo homini lupus”, Mussolini lo universalizza, estendendolo a ogni epoca e luogo. In tale contesto egli allora esalta la figura del “Principe”, in cui indubbiamente si immedesimava: infatti, era proprio lui il capo (l’uomo della provvidenza), che si ergeva sulla massa per condurre la Patria verso gloriosi traguardi.

Con toni ben diversi dalla retorica fascista, Antonio Gramsci, fondatore del PCI, in uno scritto contenuto nei suoi “Quaderni” [2], affidava la sua riflessione sull’opuscolo, cercando di darne un’interpretazione in linea con la sua concezione politica: per Gramsci il capo, in politica, non si individua necessariamente con un individuo eccezionale, ma può essere, invece, un organismo più numeroso, ossia un partito, il cui leader può cambiare senza, però, minare l’unita e la coerenza del gruppo. Proprio Antonio Gramsci definì il trattato “Libro Vivente”, poiché continua a parlare e a resistere nel tempo.

Al giorno d’oggi “Il Principe” non è più letto come il vademecum dei potenti. Ma anzi, è un libro per tutti, generato da una ragione e un’immaginazione in fermento. Oggi si rivolge più che mai a lettori liberi, disposti a interrogarlo e a interrogarsi. 

[1]  B. Mussolini, Preludio al “Machiavelli”. Nel IV Centenario di Niccolò Machiavelli, Circolo Fascista di Cultura Politica “Giacomo Venezian”, Tip. Popolo d’Italia, Milano 1927

[2]  A. Gramsci, Il moderno principe. Il partito e la lotta per l’egemonia. Quaderno 13. Notarelle sulla politica del Machiavelli, a cura di C. Donzelli, Donzelli, Roma 2012

(di Carlo Parissi)

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