A 3 anni esatti dalla morte, Johnny Winter rimane, nell’immaginario collettivo, insieme al primo Mike Bloomfield della Paul Butterfield Blues Band -tutto Fender Telecaster, Born in Chicago e Thank You Mr. Poobah – uno dei primi esempi del virtuosismo applicato al Blues.
Con lui ed Al Kooper, il 13 dicembre 1968 a Fillmore East (New York) eseguirà It’s My Own Fault, Blues Standard del quale si ricorda, anche e molto volentieri, la versione di B.B. King: dieci minuti e cinquantasette secondi di puro godimento. Ad aprire le danze è il Bluesman di San Francisco e a destare l’attenzione, per un orecchio attento, sono immediatamente le sonorità di Super Session; Gibson Les Paul leggermente sporcata, Humbucker rigorosamente al ponte, fraseggi come in Albert’s Shuffle; precisi, senza fronzoli, ciecamente fedeli ai pattern. Johnny Winter se la prende con calma, entrerà in scena dopo un minuto e tre secondi precisi; suo il cantato nella prima strofa e specialmente il fraseggio rapido, virtuoso ma pur sempre godereccio di feeling suonato con l’inseparabile Gibson Firebird. È subito un rievocare, in termini di sonorità, la Be Careful With A Fool contenuta nell’album True To The Blues; in questo Shuffle in Mi, il Bluesman di Beaumont supera sé stesso; fraseggi rapidi e secchi, accordi di nona, venature Delta. Ed è proprio su queste ultime che ruoterà uno dei suoi più grandi successi, quell’Hard Again del 1977 dedicato a Muddy Waters che permetterà a quest’ultimo il ritorno agli antichi fasti e un posto sacro nella Storia dopo la morte, avvenuta nel 1983, anno nel quale sempre grazie alle influenze di Johnny Winter emergerà una figura apollinea: Stevie Ray Vaughan.
Durante la sua carriera, si definì solamente un “buon chitarrista Blues.” I fatti, però, smentiscono – in positivo – questa tesi.
(Di Davide Pellegrino)