La Grassa, dal crollo dell'Urss alla fine del PCI

La Grassa, dal crollo dell’Urss alla fine del PCI

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E’ una bella giornata, finalmente calda, ma sono vagamente annoiato di questa politica “quotidiana”, che diventa sempre più demenziale. Andrò a ruota libera a seconda di quanto mi viene in mente. Intanto, ricordo ancora che con i miei amici ho scritto “L’illusione perduta”. Non è per farne adesso nuova pubblicità, ma solo perché effettivamente sono certo che vi viene spiegato meglio che altrove (quanto meno dal ’68 in poi) chi era e che cosa ha fatto Marx e quali limiti sono ormai evidenti nella sua teorizzazione. Tuttavia, va chiarito che non rinnego proprio nulla di quanto ho fatto e pensato in passato, sia dal punto di vista teorico, in cui alla fine ho scelto il marxismo, sia dal punto di vista politico, in cui sempre alla fine ho scelto il comunismo.

Considerare oggi i limiti, e anche l’invecchiamento, sia della teoria che della pratica politica di tempi trascorsi non significa per nulla passare ad altre impostazioni teoriche o ad altre scelte politiche nette e precise. Non rivaluto per nulla ad es. il liberal-liberismo, che mi sembra molto più superato ancora del marxismo. Critico, e sempre più decisamente, la concezione della dinamica sociale troppo appiattita sulla lotta tra due classi, stabilite in base alla centralità della proprietà/potere di disporre (o meno) dei mezzi produttivi; ma certamente non mi metto a credere alle virtù taumaturgiche del “libero mercato” (visione di una superficialità che a mio modo di vedere confina oggi con l’imbecillità) e nemmeno all’eguaglianza e libertà dei singoli individui, come fossero tutti dei Robinson ben soli nelle loro isolette, in semplice lotta con l’ambiente da cui trarre, secondo il principio del minimo sforzo e massimo risultato (principio cardine della mentalità capitalistica, non certo di quella di epoche storiche precedenti), di che sostentarsi e anche progredire.

Nemmeno ho mai seguito dottrine sociali derivate dalla religione. Non ho mai disprezzato i credenti, li rispetto pur sempre, ma non mi sono mai posto il problema di Dio con tutto ciò che ne deriva. Avevo da ragazzino (e per alcuni anni) – come sempre nelle “famiglie bene” – il padre confessore (un francescano), cui volevo molto bene, deludendolo però sempre profondamente. Non ho nulla contro chi crede, ma io sento semplicemente di non sapere da dove provengo né perché l’essere umano è così diverso dagli altri animali; e nemmeno riesco a chiedermi il senso della vita e se ce n’è in altre parti dell’Universo.

Per il momento ritengo che non si sappia nulla. So soltanto che, da molto presto (poco sopra i dieci anni), ho avuto la sensazione di una nostra vita troppo corta anche quando si diventa vecchi; e che ci sono un mucchio di problemi con le varie malattie da cui siamo colti. Di conseguenza, come sopra detto, non ho mai gran che preso in considerazione trattazioni dell’organizzazione e delle dinamiche sociali improntate troppo nettamente a credenze religiose, senza dubbio ben rilevanti in altri ambiti. Del resto, è troppo netta in me la convinzione di ineliminabili conflitti sociali che tendono ad essere mal intesi se ci si diletta troppo in discorsi “amorevoli”. Beh, non divaghiamo.

In definitiva, quando ho scoperto il marxismo, mi è sembrato che fosse un po’ più adeguato a quanto m’interessava conoscere. L’ho preso come sapere scientifico e, fin da dall’inizio (avevo in fondo già 18 anni), non ci ho creduto per fede. Mi sembrava molto convincente la scoperta che – dietro la presunta eguaglianza degli scambisti, in effetti abbastanza credibile finché si resta appunto al semplice scambio della merce da ciascuno posseduta e ceduta, in media, al suo valore (lavoro, di varia complessità, speso per produrla) – ci fosse comunque l’esistenza di una diseguaglianza dovuta alla proprietà dei mezzi di produzione da parte di una certa classe che, proprio per questa sua condizione, di fatto otteneva il pluslavoro dell’altra, in possesso di sola forza lavoro. Adesso non ripeto quanto spiegato da me mille volte e ben sintetizzato nel libro sopra citato. Dico solo che una volta convinto di quanto leggevo in Marx e altri suoi seguaci (ma sempre in termini di scienza, che mai deve essere creduta intoccabile e non criticabile ove se ne riscontrino limiti), ho anche aderito alle conseguenze di questa scelta, implicante l’adesione ad una determinata pratica politica.

Dal marxismo si poteva trarre la soluzione riformista (allora ormai detta definitivamente socialdemocratica) e quella rivoluzionaria (comunista); non sto a dilungarmi in merito (anche questo l’ho spiegato a iosa). Fin da allora (ripeto, 18 anni) mi infastidiva la frase: “le teste si contano, non si rompono”. Sono sempre stato convinto che alla fine (certo nel “lungo periodo”, insomma quando se ne creano le possibilità) è difficile, e forse impossibile, non spaccare una notevole quantità di teste. Non si cambia quasi nulla con il semplice convincimento o, dicendo assai meglio, con il mero tentativo di convincere.

Anche perché non esiste il vero convincimento. Semplicemente, quando le situazioni sono relativamente tranquille, milioni di individui, pensando a tutt’altro che alla politica in senso stretto, si adeguano alle menzogne che chi comanda e ha in mano gli strumenti di imbonimento e rincoglionimento “di massa” racconta per continuare a imporre il proprio volere. Sono in pochi a predicare quasi nel deserto che certe cose dovrebbero essere cambiate; spesso si innervosiscono e incattiviscono.

Ed è certo sbagliato, bisogna accettare che, se le cose vanno discretamente per una larga maggioranza della popolazione, tutto resta inalterato o con mutamenti minori; cambiano certe abitudini di vita, modi di passare il tempo, avanzano le tecnologie e mutano determinate modalità lavorative, sono diverse le canzoni più amate, così pure gli abiti che vestiamo e le acconciature dei capelli, le sedicenti “libertà” sessuali, ecc. ecc. Tutto il sostanziale – in merito al potere reale – resta abbastanza inalterato anche se si avvicendano individui vari nell’esercizio di questo potere.

Ci sono anche momenti di finta rivoluzione (tipo il ’68 e simili). E sia chiaro che io lo considerai sempre un periodo di forte turbolenza (anche con atti delinquenziali), ma che avrebbe cambiato soltanto alcune forme del potere, non certo favorito l’avanzata verso quella “società più giusta” (in quanto appunto comunista), che in molti, soprattutto giovani, inseguivano in grande confusione e troppo urlando. Non sono mai stato entusiasta di quel movimento che appoggiai, restandovi di fatto esterno, per motivi soprattutto “tattici”, legati alla polemica e lotta contro il Pci (da me abbandonato di fatto nel 1963, dopo la crisi dei missili a Cuba e la rottura tra Urss e Cina, perché convinto del suo “revisionismo” e perdita di ogni carica trasformativa), contro cui fui da allora sempre schierato pur mantenendo contatti amichevoli con alcuni suoi ambiti (e a livello “centrale”). Comunque, di questo semmai racconterò in altra occasione.

Le vere rivoluzioni, i cambiamenti sostanziali, avvengono in situazioni di particolare crisi di una data società, di forte malcontento per condizioni di vita in netto peggioramento e quando si vanno sfacendo e disgregando gli apparati del “potere costituito”. E nelle rivoluzioni non si va più per il sottile e non si contano le teste, “si tagliano” in discreto numero. Voglio però essere chiaro. Ho scelto il comunismo e ritengo che sia giusto ad un certo punto, soprattutto quando si presentano alternative nettamente distinte, fare una scelta.

E una volta fatta, ci si schiera con decisione da una parte. Tuttavia, non ho mai ritenuto sensata l’esaltazione e la convinzione irremovibile d’essere dalla parte, assolutamente e totalmente, giusta. Soprattutto non ritengo che tutti quelli che stanno con me siano i “buoni” e gli altri “i cattivi”. Fin dall’inizio della mio avvicinamento al Pci vidi una quantità non indifferente di individui in chiara malafede, ambiziosi, invidiosi delle migliori condizioni altrui e con la volontà di prendere il posto di questi altri. Constatai la presenza di una buona quota di stupidi o di settari o di invasati. Esattamente come l’avevo constatata – e ho sempre continuato a constatarla – dall’altra parte, nel cui ambito sono nato. Perché io sono nato “molto bene”, in condizioni di tale agiatezza da farmi ricordare con piacere la mia vita perfino durante la guerra, di cui ho sofferto ben poche privazioni e disagi (anzi, direi, nessuna privazione e limitati disagi). Sto decisamente peggio proprio nella parte finale della mia esistenza.

Mi sono allontanato dalla mia “classe” di appartenenza per scarsa stima di molti suoi appartenenti, ma soprattutto, lo ribadisco, perché convinto di una certa teoria relativa alla dinamica della società detta capitalistica. Passato dall’altra parte – non come modo e condizioni di vita, meglio specificare – non ho trovato esseri umani migliori; esattamente come sono e saranno sempre. Ho avuto cari amici (e ne ho mantenuti anche tra quelli dell’ambiente da cui provenivo) e conosciuto (e pure frequentato) una discreta quantità di odiosi, anche in tal caso come nell’altro ambiente. Tuttavia, ho ritenuto di dover puntare su una parte e, assunta tale posizione, è chiaro che ho dovuto più di una volta polemizzare con chi stimavo di più e magari solidarizzare con chi stimavo ben poco. E mi è andata bene poiché mai si sono presentate situazioni in cui si devono usare modi “assai bruschi” verso gli avversari, che anzi diventano “nemici”.

In ogni caso, resto tuttora convinto che una scelta vada fatta, che sia sbagliato e talvolta proprio vile restare sempre indecisi perché si crede che questo sia l’atteggiamento corretto. Non è corretto, è spesso quello dell’opportunista che attende di vedere chi vince o del pauroso che teme gli scontri o di chi, insomma, si comporta comunque “anguillescamente”. Sono assai pochi i veri “virtuosi” che non si schierano. E di una cosa, man mano che s’invecchia, ci si rende conto: qualsiasi sia la convinzione assunta e seguita, si arriverà sempre ad accorgersi – se non si è stupidi o settari e chiusi in se stessi fino alla cecità – di aver commesso errori più o meno gravi. Più passa il tempo e più gli errori si fanno evidenti, si comprende che si dovevano compiere altri passi o che, in ogni caso, non si è giunti dove si era convinti di arrivare. “Sbagliando s’impara” dice un sensato detto popolare. E si deve precisare ancor di più. Lo sbaglio non si nota subito perché spesso non è uno sbaglio fin dall’inizio.

La realtà in cui agiamo è di una complessità incalcolabile, irriproducibile dalla nostra mente; ed è sempre cangiante con rapidità variabile (e variabile in modo diverso nelle sue diverse componenti “fluide”). Non si può agire sensatamente se non la si irrigidisce in schemi più semplici e dotati di una o al massimo alcune direzioni di movimento, cui si attribuiscono date probabilità.  Anche ammettendo che non si sbagli fin dall’inizio la supposizione circa l’andamento della realtà, l’errore si manifesterà in seguito perché vi è stato un cambiamento. Si dirà: si deve essere attenti a individuare tali cambiamenti.

Non si può essere così elastici e flessibili com’è la realtà, altrimenti ci muoveremmo soltanto con sommo disordine e si può essere certi che inizieremmo fin da subito a capitombolare di qua e di là perdendo ogni possibilità di un qualsiasi costrutto minimamente stabile, di cui si ha bisogno per potere proseguire nell’azione e anche correggerci; ma lo si può fare ogni tanto, non in ogni infinitesima parte del tempo di cui avvertiamo lo scorrimento (e lo avvertiamo proprio così com’è?).

Già prima del 1989 (“crollo del muro”) e del 1991 (fine dell’Urss) ero giunto, e non da poco tempo, alla conclusione che non vi era stata la sedicente “costruzione del socialismo”, che questa non era stata neppure innescata. Per un certo periodo, non nego di avere pensato il contrario; che la “transizione” era stata avviata e poi si era arenata e aveva preso un’altra strada. All’inizio della svolta avvenuta in Cina con la “rivoluzione culturale” avevo pensato – pur non approvando molti aspetti di quel processo – che si trattasse di un tentativo di superare l’impasse dell’Urss (e della stragrande maggioranza del movimento comunista mondiale) per ritrovare la strada della rivoluzione. Tuttavia, con la fine di quell’evento – su cui avevo già seri dubbi – avvenuta subito dopo la morte di Mao (1976), mi ero convinto che tutto andava ripensato. E l’arrivo dell’’89-’91 non mi creò proprio nessuno sconforto o nostalgia di “cose perdute”, poiché erano cose già perse da tempo, anzi soltanto immaginate per credenza ideologica.

Devo dire inoltre che ritenni tutto sommato positiva la fine del mondo bipolare, un periodo che fin da allora consideravo una vera “cristallizzazione” della storia, insomma una “perdita di tempo”. Tanto più che poi, via via, mi sono convinto che l’Urss non aveva proprio nessuna reale capacità di vero contenimento della potenza statunitense. Con la sedicente “guerra fredda”, l’“equilibrio del terrore” e altre imprecise definizioni similari si è nascosto il fatto che semmai la potenza “imperiale” americana si è sbagliata di strategia (o tattica) più di una volta – come forse sta accadendo ancor oggi – ma l’Urss, già a partire dagli anni ’50, la conteneva abbastanza malamente.

In definitiva, non sono stato minimamente sconvolto, come tantissimi, per il disfacimento del sedicente “socialismo reale”. So bene che comunque gli Usa hanno ancor più fatto quello che volevano con molta arroganza, molta più di quando esisteva l’Unione Sovietica. Tuttavia, il contrasto che poteva opporre quest’ultima si era indebolito soprattutto dopo la morte di Stalin e già con Kruscev; e poi in definitiva la struttura sociale del paese, per errori vistosi nella effettivamente inesistente “costruzione socialistica”, si era irrigidita creando le condizioni della sua fine, indubbiamente pure accelerata dalla mediocrità assoluta dei suoi ultimi vertici dirigenti. Quindi, nessuna nostalgia è possibile; bisogna solo ripensare un intero periodo storico di fantasiose rappresentazioni ideologiche. Tutto questo, però, non mi conduce certamente a rinnegare la “rivoluzione d’ottobre”.

Non portava al “socialismo”, non era in senso gramsciano una “rivoluzione contro il Capitale” (il libro teorico di Marx). Erano tutte visioni completamente stravolte da quello che è normale in ogni fenomeno rivoluzionario. Si pensa di stare rivoltando un mondo, di star realizzando i migliori intenti di radicale rinnovamento e poi, come sempre avviene, si raggiungono altri obiettivi del tutto diversi da quelli perseguiti; e s’instaura un altro ordinamento di potere con nuovi gruppi dominanti, che a volte credono di star proseguendo lungo il percorso indicato dagli iniziali gruppi rivoluzionari. In realtà, si sta andando in tutt’altra direzione, ma anche perché gli stessi promotori di quel movimento avevano già compiuto passi in direzioni divergenti da quelle pensate e dichiarate, spesso perfino con sincerità.

Tuttavia mi sembra errato concludere: non si doveva fare nulla, era perfettamente inutile. Così pensando e agendo, non si cambierà mai nulla. E’ indispensabile “gettarsi nel fiume” e “nuotare, sia pure sott’acqua”. E’ il necessario modo d’agire di quell’essere umano che, per motivi che non sto a discutere (non ne avrei la capacità e la conoscenza), è dotato di pensiero; non possiamo non porci dei fini che rappresentano un cambiamento rispetto alla situazione del presente vissuto. Giungeremo sempre a situazioni di vita sociale in cui siamo insoddisfatti delle attuali condizioni e avvertiamo la necessità, forse ancor più del bisogno, che queste cambino.

E cerchiamo di mutarle a seconda di quanto abbiamo pensato e conosciuto della situazione presente e di quelle che ci si prospettano come possibili da conseguire. E sbaglieremo sempre; sia perché abbiamo costruito una assai imperfetta rappresentazione del presente (salvo magari per quanto concerne la sensazione di forte disagio nel viverlo) e sia perché, conseguentemente, incorreremo in errori nella pratiche di mutamento. E’ però praticamente impossibile conoscerli fin dall’inizio; in senso proprio, diventeranno errori man mano che la realtà muta nel suo incessante scorrere fluido e vorticoso (e casuale) mentre noi mai potremmo agire se non la fissassimo, di volta in volta, secondo “strutture relazionali” dotate di stabilità e mutamento “ordinato”.

Quando entriamo in un’epoca storica in cui si esigono dei netti mutamenti – e a mio avviso ci stiamo inoltrando in una di queste epoche – dobbiamo essere consci che vi sono gruppi sociali al comando che non vogliono perdere le loro posizioni di privilegio; altri sono insoddisfatti, si sentono in condizioni di inferiorità e disagio, ma temono ancor più fortemente i rivolgimenti diretti a situazioni non conosciute in anticipo; coloro che optano per il cambiamento si dividono a seconda delle mete presunte migliori cui si vuol giungere; coloro che optano grosso modo per la stessa meta (o quasi) si dividono circa i percorsi e le modalità creduti più idonei al conseguimento dello scopo. Insomma, vi sono tanti motivi che conducono gli esseri umani a contrasti reciproci. E quanto più i cambiamenti s’impongono, se ne sente l’urgenza, tanto più i contrasti diventano acuti, veri scontri accesi, in cui le diverse “frazioni” d’esseri umani si sentono nemiche e pronte a farsi molto male. E quelli che si mettono a predicare l’amore, la fratellanza, sono raramente uomini veramente buoni; sovente sono emeriti ipocriti interessati a preservare certe posizioni per loro vantaggiose.

Come tutti, posso sbagliare di grosso; tuttavia, così a occhio e croce, temo che i più giovani, coloro che hanno davanti a sé alcuni decenni di vita, debbano prepararsi ad affrontare periodi assai duri di intensi conflitti. E sarà soprattutto necessario dismettere gli abiti del “buon cuore” e del “siamo tutti fratelli”. Del resto, sappiamo bene come si trattano i fratelli fra di loro quando urgono esigenze sempre più divergenti. In questo momento, vi è ancora molta confusione, non è ben chiaro dove si sta andando. Le indecisioni sono comprensibili.

Certe ideologie sono franate e solo alcuni gruppi di inveterati e sconclusionati “fedeli” possono ancora crederci sinceramente; i più semmai fingono di crederci quando se ne sentono serviti nei loro vantaggiosi rapporti sociali. Si avvicinano i momenti della maggiore chiarezza (sempre se non erro troppo vistosamente). Si capisca che bisognerà decidersi, schierarsi, farsi seguire o seguire dati capi che sanno prendere decisioni definitive. Si dovrà scegliere da che parte stare, quale meta preferire, quale direzione seguire per giungervi. Si sia pronti a capire che non si arriverà proprio nel punto prescelto “dell’altra sponda”; e tuttavia, non ci si deve “spompare” e rinunciare a combattere. Il malcontento della situazione presente comunque dilagherà, il cambiamento sarà necessario, “tagliare la testa” di coloro che non lo vogliono diventerà esigenza imprescindibile. Quindi preparatevi a decidere, a scegliere, a lottare. E a dare la morte a tanti, morendo in tanti. E mandate al diavolo chi vi predica i buoni sentimenti. Per ogni “santo” esistente, ci sono mille farabutti da “inviare in cielo”, togliendo loro i privilegi goduti per decenni o secoli.

Beh, finiamo la scampagnata. La giornata è sempre bella, ma volge a sera e si deve concludere. Ho evidentemente espresso con sincerità quello che penso della realtà del mondo in base all’esperienza che posso averne avuta. Non pretendo d’essere infallibile e non sostengo che quanto ho sostenuto sia l’assoluta verità. La penso così, così valuto l’andamento delle vicende nella società degli uomini. Ho semplicemente esposto, e molto in sintesi, le mie idee in proposito. Arrivederci.

(di Gianfranco la Grassa)

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