Putin: un uomo che ha fatto la Russia di nuovo grande

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Vladimir Putin è dal 1999 il Presidente della Federazione Russa, e, da 3 anni a questa parte, anche “l’uomo più potente del mondo” secondo Forbes. Questo leader, così discusso al di fuori del suo paese ma così amato nella sua Patria (l’ultimo sondaggio sulla popolarità, del novembre 2016, dà l’approvazione del popolo russo verso il suo Presidente all’86,8%, secondo l’Istituto VTSIOM), ha avuto un ruolo centrale per lo sviluppo della politica internazionale degli ultimi venti anni – forse persino superiore a quello dei vari Presidente americani.

In più di un decennio ha radicalmente mutato, in maniera imprevista dai grandi “esperti”, gli equilibri geopolitici europei e globali, spostando un’asse del potere che secondo alcuni era già «tracciata» in maniera unidirezionale. I grandi problemi della contemporaneità stanno passando in gestione dalle mani di Washington a quelle Cremlino, in una inversione di rotta, di potere, di capacità politiche e di consenso come non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda.

Il mondo è attualmente spaccato sulla figura di questo Presidente: l’Occidente lo dipinge come una minaccia alla pace, fautore di un muscoloso revanscismo russo esportatore di guerre e sostenitore delle estreme destre, repressivo e nemico dei diritti umani – e c’è chi, come la maggioranza del popolo russo, lo vede come colui che ha reso di nuovo grande la Russia, ha rilanciato con prepotenza l’economia, ha ridato una vita dignitosa alla popolazione, ha sviluppato una politica estera forte e sovrana, improntata sulla salvaguardia dei diritti dei russi.

LE ORIGINI: LA BOLGIA ELTSINIANA

Prima di addentrarci nella storia della Presidenza e delle opere putiniane, bisogna avere in mente un dato di partenza essenziale, senza il quale non è realmente comprensibile la storia russa: quando Putin prese in mano la Russia, nel 1999, aveva di fronte un paese realmente povero, dilaniato da disuguaglianze e da stragi di stampo mafioso e terroristico, governato da una corruzione endemica in una economia depressa, insolvente e soggetto a penurie, e uno Stato che, nell’arena internazionale, era stato sconfitto militarmente da dei guerriglieri islamisti ceceni (nel 1994-96).

La Russia uscita dal comunismo non aveva imbracciato né il modello liberaldemocratico occidentale né la via del benessere. Il primo punto, tanto in voga nei salotti intellettuali euro-americani, era stato subito soppresso da Boris Eltsin con il suo colpo di stato del 1993. La sua genesi ben dimostrata l’illegalità nella quale sarebbe sfociato il suo regime: siccome l’allora Presidente russo aveva contro di sé il Congresso dei deputati del Popolo, una camera democraticamente eletta, emanò prima un decreto – dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale – nel quale aboliva tale Congresso (!) ed istituiva la Duma di Stato. Impossibile da applicare in quanto gravemente non conforme alla Costituzione, Eltsin venne legalmente destituito dalla votazione del Congresso stesso. Il che era tutto perfettamente costituzionale. Ma, per non perdere il suo potere, Eltsin passò alla forza: iniziò il cannoneggiamento del palazzo del Congresso, lo occupò militarmente e passò allo scioglimento forzato dell’istituzione. Così iniziò il regno di quel Presidente che, solo qualche anno prima, l’Occidente aveva lodato nella figura come contraltare del “totalitarismo sovietico”.

Se le scelte politiche di Eltsin furono un disastro, quelle economiche rasentarono il criminale. La Russia non si aprì al libero mercato, bensì ad un Far West di illegalità, di corruttele nelle quali erano coinvolti tutti i famigliari del Presidenti, ed in una situazione sociale che ricorda l’hobbesiano homo homini lupus. La decisioni liberistiche introdotte da Eltsin dal 1992 in poi, portavano l’imprimatur degli impopolari economisti Čubajs e Gajdar, e diedero il via allo smantellamento delle industrie statali, dando ai cittadini un buono di 10.000 rubli per partecipare all’azionariato. Una scelta a dir poco disastrosa, che ha fallito in tutti i campi. Il primo dei quali quello sociale, come ha ben descritto il famoso storico russo Roger Bartlett:

«Nel 1992-94, avere un secondo lavoro, barattare, chiedere l’elemosina era comunissimo; i professionisti, in attesa di ricevere lo stipendio, coltivavano verdure e allevavano galline nelle loro dacie. Criminalità e violenza aumentarono poiché i criminali approfittavano di operazioni ufficiali e commerciali; divenne normale esportare illegalmente metalli preziosi e tutto ciò che poteva essere venduto, così come le fughe di capitali verso banche svizzere (una parte del denaro trasferito proveniva dall’appropriazione indebita dei prestiti ottenuti dal FMI)» (Roger Bartlett, Storia della Russia, 2007, Mondadori, p. 291)

Visto in prospettiva, quasi nulla (forse nulla) è salvabile di quel decennio: nel 1999 la disoccupazione aveva toccato la cifra altissima di 10 milioni e mezzo di disoccupati su una popolazione di circa 140 milioni di persone (nel 1993 la disoccupazione era al 30%, nel 1994-95 al 45-48%), mentre l’aspettativa di vita era passata da 65 anni nel 1987 a 58 nel 1993. Per un confronto, la disoccupazione in Russia nel 2016 era del 5,5-6% (la metà di quella italiana!) e l’aspettativa di vita era di 70 anni nel 2012. Infine, per sigillare il disastro economico, nel 1998 la Russia dichiarò default sul pagamento dei debiti interni, e tra le conseguenze ci furono: fortissima svalutazione del rublo, una inflazione altissima (84%) e un’acuta crisi produttiva che costrinse Mosca a chiedere aiuti umanitari da parte delle organizzazioni internazionali.

Tuttavia non sono solo dati numerici a rappresentare la catastrofe nella quale versava la Russia negli anni ‛90, perché in quegli anni si sviluppò anche un altro fenomeno: nascevano i cosiddetti “oligarchi”. Questi nuovi businessmen russi, veri e propri cleptocrati, si arricchirono grazie alla sregolatezza introdotta da Eltsin, acquistando a prezzi stracciati aziende pubbliche e industrie in disuso o disfacimento, sfruttando lo smantellamento di grandi colossi per riemergere in nuovi monopoli e prosperando in una situazione caratterizzata da inflazione, fuga di capitali e mancanza di controlli.

Le ascese di questi “uomini nuovi” sono state strepitose e rapidissime: Mikhail Khodorkovskij, giovane piccolo imprenditore, acquistò la compagnia petrolifera Yukos (nella quale era coinvolta anche la famiglia Eltsin) per 168 milioni di dollari – una compagnia con un fatturato di circa 3 miliardi annui! Oleg Deripaska, invece, attraverso una campagna di svendita compulsiva di azioni, diventò in pochissimo il “padrone” dell’alluminio e il nono uomo più ricco al mondo, e molti altri imprenditori furono responsabili di simili ascese repentine. Vanno menzionati tra i tanti Berezovskij, Gusinskij, Fridman e Abramovič. Questi oligarchi, oltre a costruire propri eserciti privati sullo stile dei clan mafiosi, sostennero apertamente Eltsin in tutte le campagne elettorali (nelle elezioni del 1996, gli donarono 750 milioni di dollari per sconfiggere il candidato comunista Zjuganov).

Infine, sul campo internazionale, la Russia era stata costretta al ritiro forzato dal ruolo di superpotenza, era stata per sua scelta costretta ad abdicare. La debolezza politico-strategica russa in questa fase è ben rappresentata dalla sconfitta nella Prima Guerra Cecena, iniziata con la dichiarazione di indipendenza della Cecenia dalla Russia: un esercito superiore di numero, meglio armato e guidato da esperti generali come quello russo venne incredibilmente sconfitto da dei guerriglieri islamisti nella Battaglia di Groznij (la peggiore prova di inefficienza del conflitto). Una sconfitta talmente micidiale che costringerà Mosca, con l’Accordo di Khasav-Yurt del 1996, a riconoscere de facto la Cecenia controllata dalle milizie islamiste.

I PRIMI ANNI: GUERRA ALLA CORRUZIONE E AL TERRORISMO

Boris Eltsin, nei suoi ultimissimi anni da Presidente, ben rappresentò nella sua persona la Russia che aveva contribuito a creare: un uomo con gravissimi problemi fisici nonostante l’età non avanzata, rovinato dall’alcolismo e molto lontano dallo scenario politico, che lasciava volentieri nelle mani dei suoi accoliti. Dal 1997-98 iniziò a preoccuparsi di trovare un successore, visto il rapidissimo declino fisico. Molti nomi di rilievo furono bruciati, soprattutto per le divergenze spesso acute che avevano con i metodi mafiosi del malato Presidente: Evgenij Primakov, Kirienko e Černomyrdin caddero tutti in disgrazia presso Eltsin. Il potere, di fatto, stava scivolando dalle sue deboli mani a quelle della “Semja” (“La Famiglia”), nella quale ogni membro, man mano che la debolezza di Eltsin si acuiva, aumentava la sua presa sul potere russo. In primo piano la figlia Tatjana, suo marito Jumašev, Berezovskij, il capo del gabinetto Vološin, la moglie e l’altra figlia Elena. Per riuscire a succedere a Eltsin era necessario passare anche per la Famiglia.

Fu Putin che, nel 1998-99, ci riuscì: era un ex funzionario del KGB, per molti anni operante in Germania Est, poi vice-sindaco di San Pietroburgo (vice del suo amico e mentore Sobčak) e figura di primo piano nei nuovi servizi segreti negli anni ‛90. Con il suo lavoro certosino, la sua indole inflessibile e lontana dalla tronfia mondanità, la sua grande capacità di lavoro e la sua “verginità” nella “grande politica” (e forse anche per la mancanza di altre alternative), sia Eltsin che il suo entourage decisero di puntare su di lui.

Putin diventò Primo Ministro, poi Presidente ad interim (in seguito alle dimissioni di Eltsin) e poi vinse le elezioni del 2000 col 53,4% dei voti. Era iniziata una nuova èra, con Eltsin rassegnato a vita privata in condizioni di salute critiche. Vladimir Putin, per gli amici “Volodja”, raccolse per la prima volta nelle sue mani un potere vastissimo, rafforzato sia dalla sua “indipendenza” sia dalla caduta di molti altri uomini di potere molti anni prima.

La prima sfida della nuova amministrazione si chiamava Cecenia: dopo la sconfitta e il trattato di pace del 1996, le milizie islamiste, nel 1999, riaprirono le ostilità. Invasero il Daghestan, provincia russa a maggioranza islamica, e compirono svariati attacchi terroristici: il 13 settembre 1999, il palazzo di via Kashirskove a Mosca fu fatto saltare in aria da gruppi terroristici legati alla Cecenia, causando la morte di 293 persone. Non sarà nemmeno l’unico.

La prima sfida di Putin rappresentò un punto di svolta decisivo: dopo l’umiliante sconfitta della guerra precedente, era necessario sia riorganizzare completamente l’esercito e i comandi sia ridare morale ai soldati. Una impresa che, per una economia in crisi, pareva impossibile, essendo i terroristi ceceni molto abili e preparati ad affrontare una guerra asimmetrica. Putin diede prova di incredibile solerzia e determinazione: non solo riorganizzò le operazioni, ma si recò personalmente sul campo per rianimare le truppe russe. È passata alla storia la frase che Putin pronunciò in quelle ore e che divenne uno slogan molto ripreso dalla popolazione: «È inutile che i terroristi si nascondano, li inseguiremo ovunque fuggano, ovunque si vadano a nascondere. Anche nel cesso. E li ammazzeremo anche nel cesso!».

Questa volta la guerra andò molto diversamente: in meno di un anno, i russi vinsero completamente, liberando Groznij il 6 febbraio del 2000. Una vittoria lampo che, se da una parte riunirà la Cecenia alla Russia portando ad una forte cessazione degli attentati, dall’altra darà il via ad uno stillicidio terroristico durato ai giorni nostri, con vendette ed omicidi da parte dei guerriglieri rifugiatisi nelle montagne del Caucaso. Una rappresaglia che puntò unicamente ai civili inermi (basti ricordare la strage nella scuola di Beslan, dove i terroristi ceceni trucidarono 186 bambini e 333 persone in totale), mostrando tutta l’acrimonia per una sconfitta che sicuramente i capi ceceni non si aspettavano. L’importante, tuttavia, fu il risultato: il popolo russo aveva ritrovato un Presidente forte, deciso, e finalmente vincente, e la Cecenia era il suo biglietto da visita.

La seconda “guerra” intrapresa da Vladimir Putin fu quella agli oligarchi: la dissoluzione del potere statale russo e la crescente dipendenza dall’illegalità andavano frenati il prima possibile, anche con le maniere forti. Appena l’ex agente del KGB prese le redini del potere iniziò un’epoca di vera e propria tolleranza zero: il 16 settembre del 1999, Putin stesso ordinò a 300 poliziotti delle forze speciali di intervenire militarmente ed occupare la sede centrale della Transneft, compagnia che ha il monopolio degli oleodotti russi. Il motivo? Il Presidente destituito della compagnia, Dmitrij Savelev, non voleva andarsene né cedere il posto al nuovo Presidente eletto. Ma la Legge è la Legge, secondo Putin, e va fatta rispettare a tutti i costi. Da quel momento in poi, Volodja imporrà il rispetto della legge anche ai piani altissimi, non disdegnando l’uso della forza ogni qual volta divenga necessaria.

Saranno i nomi più potenti a cadere: Vladimir Gusinskij, ebreo e proprietario della holding editoriale Media Most, che si era arricchito nei primi anni ‛90 col riciclaggio di valuta in collusione col sindaco di Mosca, viene arrestato il 13 giugno 2000, con l’accusa di truffa allo Stato per 10 milioni di dollari. È la svolta che nessuno si aspettava: Berezovskij espatria, e inizia a vivere in esilio, Khodorkovskij (uomo più ricco della Russia), dopo aver cercato la resistenza in virtù dei suoi forti agganci e fondi, viene arrestato nel 2003 per evasione fiscale e frode (passerà nove anni di galera, prima di essere graziato). Pochi ne usciranno illesi, e non quelli più compromessi. Tra i pochi nomi a salvarsi, figurano il proprietario del Chelsea Roman Abramovich, che ha mostrato collaborazione con lo Stato russo nella vendita della compagnia petrolifera Sibneft a Gazprom e mantenendo intenzioni pacifiche e collaborative con le autorità.

IL PUTINISMO TRIONFANTE: PATRIOTTISMO E BENESSERE

Con la Presidenza Putin, la Russia rivive un’intensa ondata di patriottismo e d’orgoglio nazionale: il ritorno, nel 2000, del vecchio inno sovietico, con qualche modifica, apre la porta ad una riscoperta a tutto tondo delle tradizioni antiche della Russia senza tuttavia negare il passato sovietico. L’eredità dell’Impero Russo viene ossequiosamente recuperata, in vicinanza con la Chiesa Ortodossa come centro dell’anima russa, ma le si affiancano le tradizioni sovietiche, con le grandi vittorie militari ed umane che le sono proprie. Lo stesso Putin, che nel recupero delle tradizioni sovietiche fu molto criticato dai liberali, rispose così: «Se pensiamo che i simboli delle epoche precedenti, inclusa quella sovietica, non debbano essere affatto usati, allora dovremmo ammettere che le esistenze dei nostri genitori siano state inutili e senza significato, che essi abbiano vissuto invano».

Il recupero delle tradizioni della Russia eterna, tuttavia, non furono (solo) un espediente per ottenere il consenso: servirono da collante per riunire una società che stava andando verso la disgregazione. E non fu affatto, come alcuni male interpretano, una “russificazione” delle pur consistenti minoranze (basterebbe far notare che la Russia europea è lo Stato con più fedeli musulmani sul suo territorio e con più moschee), bensì un tentativo di creare un nuovo senso della “comunità” che segnasse una nuova èra piena di grandi cambiamenti.

Il più decisivo di questi cambiamenti fu uno straordinario (quantomeno per gli standard russi) benessere, che grazie alle politiche di Putin aumentò gradualmente dal 2000 in poi. Vi erano sì molti problemi, anche gravi ed insoluti, ai quali guardare, ma la nuova Presidenza riuscì a concentrarsi con vigore sul miglioramento della qualità della vita e sull’economia nazionale.

Senza dilungarci troppi nei dati, bastano alcune cifre di paragone per far comprendere il percorso intrapreso da Putin: il PIL russo, che nel 1999 era stimato in 200 miliardi di dollari, nel 2007 era stimato dalla Banca Mondiale in 1260 miliardi (un aumento in rapporto al PIL mondiale dallo 0,79 al 2,79%). La crescita dell’economia ha conosciuto una fase ascendente che si è arrestata unicamente nel 2009, in seguito alla crisi dei subprime: +10% nel 2000, e poi una media del +6-7% annuo. La popolazione russa che nel 2000 era sotto la soglia di povertà era il 37%, ma dieci anni dopo solo il 15% (oggi ancora meno!), e le tasse sui salari sono state progressivamente ridotte dal 40 al 26%. Tutto ciò ha permesso un incremento del benessere molto vicino (a volte pure superiore) rispetto agli standard occidentali: disoccupazione al 5-6%, nascite aumentate del 40%, aspettativa di media in costante aumento (oltre 70 anni) -10% della criminalità, -50% degli omicidi e -60% di diffusione dell’alcolismo. A questo bisogna aggiungere la capacità russa di azzerare il debito sovrano, accumulando oltre 400 miliardi di dollari in riserve.

I dati non possono chiaramente dirci tutto, essendocene molti altri e persistendo ancora forme di economia sommersa. Ciò che è certo, è che i russi non hanno mai goduto di così alti standard di vita da decenni, recuperando ampiamente il gap con i paesi occidentali (che, al contrario, stanno sempre più scivolando nel baratro). Una crescita derivata da svariati fattori: il sapiente sfruttamento di risorse essenziali come gas e petrolio, ma anche il ritorno dello Stato in economia (almeno nei settori strategici), la liberazione delle forze produttive che negli anni ‛90 erano state represse dalla corruzione, le riforme fiscali e amministrative, ed anche una nuova configurazione geostrategica russa in Asia ed Europa.

GEORGIA 2008: IL RITORNO DELL’IMPERO

Per quasi un decennio, Putin non poté fare altro che concentrarsi sui grandi problemi che dilaniavano internamente la Russia. La politica estera russa mutò improvvisamente solo molto tempo dopo: il 9 agosto del 2008, per la precisione. Giorno in cui le truppe russe entrano nell’Ossezia del Sud per difenderla dagli attacchi georgiani. Fu la prima volta che la neonata Federazione Russa venne coinvolta militarmente fuori dal proprio territorio, e quella che Mosca dovette affrontare fu una sfida tanto nuova quanto decisiva.

L’Ossezia del Sud (così come l’Abcasia) è una repubblica de facto indipendente dal 1992 (ma non riconosciuta a livello internazionale), situata a livello giuridico in territorio georgiano e, per questo motivo, rivendicata da Tblisi. Abitata quasi integralmente da osseti e russi, che non hanno mai riconosciuto l’autorità della Georgia, mantiene solidi legami con Mosca. Legami storici (l’Ossezia del Sud ha sempre fatto storicamente della Russia, dove si trova l’Ossezia del Nord) e culturali (la massiccia presenza di russi, e il russo come lingua più parlata ne sono le più plateali dimostrazioni). I cittadini osseti si considerano russi e vengono considerati tali da Mosca.

Il 7 agosto 2008 le truppe georgiane invasero la Repubblica osseta nel tentativo di riconquistarla militarmente e piegare l’autonomia che la piccola repubblica si era conquistata. La brutalità degli attacchi georgiani (quasi 2000 morti nel tentativo di conquistare la capitale osseta Tskhinvali, che ha 33.000 abitanti) e la rottura unilaterale dello status quo costrinsero la Russia ad intervenire: la 58esima Armata russa penetrò, il 9, in territorio osseto e aiutò, con estrema rapidità, le milizie ossete a riconquistare il territorio perduto. I militari russi poi, arrivati anche in Abcasia, daranno il via ad una breve offensiva sulla città portuale di Gori: la resistenza espansionista georgiana verrà così piegata in poco insieme al suo apparato militare. La Russia non era più quel paese moribondo che i georgiani stolidamente pensavano.

L’obiettivo russo in questa guerra non fu affatto né quello di annettere la Georgia o di operare un cambio forzato di regime (come anche dimostrano i bombardamenti esclusivamente su bersagli militari e la decisione di non proseguire l’avanzata in territorio nemico oltre Gori): si trattava di dover ripristinare uno status quo che la Georgia aveva violato con la forza militare a danno della Russia e dei suoi interessi, e con minacce nemmeno troppo velate di pulizia etnica ai danni degli osseti. Un obiettivo che Mosca ha ottenuto in poco tempo. L’offensiva ebbe infatti termine meno di 10 giorni dopo: il 15 agosto venne firmato un cessate-il-fuoco, che impegnava i russi al ritiro dal territorio di Abcasia e Ossezia e la Georgia a non ricorrere alla forza con le due repubbliche.

Si trattò senza dubbio di una grande vittoria russa, sia nel campo militare (se è vero che la Georgia non è assolutamente militarmente irresistibile, è pur vero che la Russia ha dato prova di organizzazione e capacità di reazione ben diverse da quelle della Prima Guerra Cecena) sia in quello diplomatico. Per la prima volta dopo molti anni, il diritto russo alla difesa dei suoi concittadini minacciati all’estero venne de facto riconosciuto (le dichiarazione dell’allora Ministro degli Esteri italiano Franco Frattini lo avvallano), le capacità strategiche russe iniziarono ad essere quantomeno riconsiderate nelle cancellerie occidentali e, infine, il frettoloso revanscismo georgiano fu letteralmente spezzato.

La Russia era uscita dal capitolazionismo e dalla debolezza dell’era Eltsin, e si era proiettata verso un’altra dimensione strategica – la stessa che la condurrà, anni dopo, al doveroso impegno negli scenari di Crimea, Donbass e Siria.

(di Leonardo Olivetti)

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