Wonder Woman 1984

Wonder Woman 1984, finalmente un film “conservatore” a Hollywood?

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Parlare di questo Wonder Woman 1984 ci porta a Washington, negli anni ’80: la splendida Diana Prince (pseudonimo della principessa amazzone Diana di Themyscira, meglio nota come Wonder Woman) si divide tra la lotta al crimine (condotta con corazza succinta e Lazo della Verità), l’impiego da esperta di arte antica allo Smithsonian Institute e l’eterno (Diana vive attraverso i secoli, ma non è immortale: fisicamente è vulnerabile) lutto per l’amato Steve Trevor, pilota d’aereo sacrificatosi nella Prima Guerra Mondiale. Al museo incontra (nello stesso giorno) una nuova collega, la geologa Barbara Minerva (anch’ella intelligente, bella e immalinconita dalla solitudine; a differenza di Diana però è terribilmente goffa) e Maxwell Lord, speculatore finanziario e personaggio televisivo, ossessionato dai desideri e dalla paura che il figlio Alistair possa avere un’infanzia triste come la sua.

Wonder Woman 1984

Wonder Woman 1984: senza cattivi né momenti forti

Il film comincia con una scelta azzeccata: liberarsi subito della scena meno coinvolgente (per quanto ingegnosa), ossia il prologo con Diana bambina nell’Isola delle Amazzoni. Seguono però tanti errori: il “ritorno” di Steve (di che natura è la sua “possessione” del corpo d’un altro uomo, dove finisce costui nel frattempo, perché non fare tornare Steve e basta?), la colonna sonora (le solite brutte marcette enfatiche di Hans Zimmer), non aver sfruttato bene a fini comici (magari allungandola) la scena della palestra in cui Barbara sperimenta la sua nuova super-forza, il montaggio frenetico delle scene di lotta (che le rende dispersive, non fruibili: per di più molte inquadrature sono sbagliate – il gran lavoro fatto per la scena d’azione al centro commerciale è così andato sprecato), la scrittura approssimativa della sceneggiatura – compensata da una caratterizzazione piuttosto profonda dei personaggi.

I “cattivi” sono più simpatici dei buoni: di fatto, non sono cattivi. Una sola gag: Steve che prova i vestiti degli anni ’80; qualche momento emozionante (il volo tra i fuochi d’artificio del 4 luglio, la corsa e il balzo sopra Washington di Diana col cuore spezzato, il suo arrivo allo scontro finale con indosso la corazza di Asteria), e un paio di sequenze avvincenti (Max Lord che sconvolge l’Egitto, la rissa tra Diana e Barbara nella Casa Bianca – girata mesi prima del grottesco assalto, nel mondo reale, a Capitol Hill): poco, per un film di due ore e mezza.

La nuova Diana

Secondo film “monografico” su Diana Prince alias Wonder Woman, personaggio dei fumetti già protagonista d’un telefilm anni ’70, dov’era interpretata dalla reginetta di bellezza statunitense Lynda Carter. Portata sugli schermi televisivi anche da vari cartoni animati, Wonder Woman è approdata al cinema soltanto con i recenti film sulla Justice League (i supereroi protagonisti dei fumetti DC), dove è ritratta dalla modella Gal Gadot, già Miss Israele: a seguito del successo di questi film “collettivi”, nel 2017 è stato girato il primo “Wonder Woman”, dall’enorme successo di pubblico (budget di quasi 150 milioni di dollari, incassi oltre gli 800 milioni) e persino di critica (negli Stati Uniti: nessun plauso dalla stampa europea).

Del precedente film sono rimasti la regista Patty Jenkins (prima di allora regista soltanto di Monster, mediocre drammone del 2003 con Charlize Theron), la protagonista Gal Gadot (doppiata dalla brava Claudia Catani, stranamente spenta: ma dati i dialoghi, c’è da comprenderla), oltre a Chris Pine e (soltanto nella prima scena) Robin Wright e Connie Nielsen.

Oltre un anno di riprese: dal giugno 2018 al luglio 2019, e budget salito a 200 milioni di dollari; il film sarebbe dovuto uscire nei cinema di tutto il mondo nel giugno 2020, ma già a marzo l’emergenza del Covid-19 aveva fatto slittare la programmazione. Distribuito in pochi cinema di lingua inglese nel Natale 2020, il film è stato diffuso nella scorsa primavera in DVD, streaming e, a maggio, in qualche sala europea: gli incassi non hanno ancora coperto le spese di produzione, ciò nonostante giovedì 3 giugno la stessa Gal Gadot ha diffuso via social network un “teaser” del terzo film.

Cameo di Lynda Carter: è Asteria, nel flashback durante il quale Diana racconta l’origine della corazza. Nella scena natalizia finale, il papà e le due bambine che giocano sono il marito e le figlie della Gadot.

Il mondo arabo contro la Gadot. Immancabili le polemiche. Steve “torna” animando il corpo d’un altro uomo (questa “possessione” è un punto inquietante, e poco sviluppato, del film): con questo corpo si congiunge a Diana, e con esso la aiuta nelle sue pericolosissime avventure. La rivista per ragazze nerd “The Mary Sue” ha visto in ciò una doppia violenza ai danni di colui che, nei titoli di testa, è appellato “Handsome Man”.

Assai più seria è la questione araba. Durante la scena ambientata in Egitto, Diana salva dei bambini arabi da un carro blindato che sta per travolgerli: ed è in effetti di pessimo gusto che la scena sia interpretata da Gal Gadot, la quale già nel 2014 dichiarò pubblicamente la sua approvazione per l’Operazione Margine di Protezione (una tempesta di fuoco riversata dall’esercito israeliano su Gaza, con molte vittime civili, tra i quali molti bambini). Infatti il precedente film Wonder Woman del 2017, dove la protagonista dimostra a ogni piè sospinto la sua dedizione alla tutela dei frugoletti travolti dalla Grande Guerra, fu vietato nei Paesi arabi (assieme a quelli della Justice League nei quali compaia Diana/Gadot): almeno in quell’episodio si trattava di bimbi “neutrali” – mostrarla mentre salva dei piccoli arabi è una ruffianata che non ripara alla precedente offesa: la peggiora, e il divieto infatti è stato ribadito per il nuovo film.

Non contenta, in occasione degli scontri tra Hamas e l’esercito israeliano dello scorso maggio, la Gadot ha diffuso su Instagram un inelegante e tracotante riconoscimento del diritto dei palestinesi alla sopravvivenza, ricevendo in risposta una meritata salva di pernacchie. Ma se ne infischia (come ha già fatto lo scorso anno, dopo la figuraccia del video in cui lei e alcuni esponenti – a differenza sua, falliti – del peggior star system yankee stonavano la canzonaccia di John Lennon “Imagine”), e lancia il terzo film ribadendo che la missione di Wonder Woman è far regnare l’amore nel mondo (“love, love, love”… un omaggio al Verdone hippy di “Un sacco bello”?).

Bella come una dea (occhi da cerbiatta, chioma leonina, volto soave e fisico che rasenta la perfezione – con buona pace dei “nerd” sbavanti ancora indignati per l’ingaggio di un’attrice che non ha la circonferenza pettorale della Carter), a differenza del film precedente Gal Gadot stavolta non deve reggere da sola il film: le idee finalmente ci sono.

Dalla Pietra dei Sogni – l’idea centrale e le possibilità che offrono è, a differenza di altre presenti nel film, ben giocata – ai cromatismi eccessivi dell’estetica pop anni ’80, a un “cattivo” disneyano che pare uscito dai film per ragazzi degli anni ’90 – istrionico e viscido, infantile ed esageratamente curato nell’aspetto, persino affiancato da una segretaria bonazza (la biondissima lungagnona Gabriella Wilde).

Il cast sostiene bene il compito di sopperire la mancanza di momenti forti e il disordine della regia: Chris Pine, sempre un po’ attonito, rende bene la simpatia di Steve; Kristen Wiig (una comica televisiva) interpreta bene un personaggio complesso e mutevole (la timida scienziata Barbara, che diventa la letale superfelina Cheetah); il cileno Pedro Pascal si diverte a gigioneggiare nel ruolo di Maxwell Lorenzano alias Max Lord, e la sua interpretazione spicca nel gruppo. La Gadot ricorda invece quanto Roger Moore ammetteva della sua interpretazione di James Bond: non è autentica recitazione, ma brio, energia, dinamismo, gioco. Se il personaggio è (dolentemente) cresciuto rispetto al film predecessore, lo è però anche l’attrice.

Wonder Woman 1984

Il femminismo a fasi alterne di Wonder Woman 1984

Con tutti i suoi difetti (su tutti: essere un lungo film d’intrattenimento con pochi momenti divertenti), Wonder Woman 1984 è un film migliore di Wonder Woman: e la sua protagonista, pur non monopolizzando più il film, è un personaggio più interessante. Resta un’anomalia nel campo, ormai dominante, del cinema “di genere” (che, a parte le prodezze della meravigliosa Jessica Chastain – Zero Dark Thirty, Miss Sloane, Molly’s Game: ruoli di donne forti che spadroneggiano in ambiti maschili – riserva per lo più spazzatura di propaganda).

Il personaggio dei fumetti di Wonder Woman fu disegnato nel 1941 da Harry G. Peters, seguendo le indicazioni di William Moulton Marston: lo psicologo inventore, per conto della CIA, della macchina della verità (da cui il lazo di Diana), il quale trovava ingiusto che i supereroi dei fumetti fossero tutti uomini; dietro questo femminismo di facciata, si celavano i capricci erotici di Marston.

Conseguenza di ciò fu che nel famoso telefilm degli anni ’70, Wonder Woman non avesse più alcuna carica femminista, anzi: seppur ancora semidea energica e invincibile, la Diana ritratta dalla pettoruta (e ricordata infatti soltanto in virtù di tale dettaglio) Lynda Carter era ridotta all’oggetto del desiderio del maschio occidentale medio: un corpo da pin-up strizzato in un costume risibile e coinvolto in scene d’azione intese non a narrare le gesta d’una paladina degli oppressi, ma a esibirne le forme. Una mercificazione (in effetti cretina) inaccettabile per il politicamente corretto del Duemila.

Si è così giunti alla Wonder Woman cinematografica versione Jenkins-Gadot, interpretata da un’attrice che si fa portavoce delle peggiori isterie del pensiero unico. Qui sta il problema: perché la Gadot predica i dogmi LGBT e l’accettazione narcisistica della mediocrità (il mantra, diffusissimo via social network, dell’auto-accettazione: non importa ciò che si è e come si è, l’importante è voler bene a se stessi – se si è brutti ci si considera belli, la ricerca dell’eccellenza è un “costrutto sociale” così come la carriera e l’esigenza di mettere al mondo dei figli, le differenze culturali non esistono, da soli si sta meglio e via blaterando come fa chi è “open-minded” e obbedisce a questi dogmi che stanno mettendo in piedi una società di fragili analfabeti).

Se quindi è coerente e apprezzabile la riaffermazione di Wonder Woman quale donna forte (pur strizzando l’occhio alla suddetta mercificazione: perché nonostante la citata vulnerabilità lo renda assurdo, Diana continua a indossare la celebre, cortissima corazza porpora – finché gli artigli di Cheetah non la obbligano a ricorrere alla “aquila d’oro”), tutto il resto porta confusione.

Un film “conservatore”?

Se al suo pubblico si predica la trascuratezza fisica (no al “bodyshaming”, sì al “curvy”, rifiuto della “mascolinità tossica” ossia muscolare), perché gli si propone un’eroina dall’atletismo formidabile (Jennifer Nied, redattrice di “Women’s Health Magazine”, è quasi schiattata di fatica dopo aver provato per una settimana il regime ginnico da “berretto verde” cui la Gadot si sottopone da anni per sostenere il ruolo di “Donna Meravigliosa”); se si ciancia di quanto sia crudele che la società pretenda da questi spettatori l’eccellenza (forse in un universo parallelo, o comunque prima del ‘68), perché la protagonista è una professionista colta, intelligente e qualificata? Se la cosa più importante cui gli ammiratori si devono dedicare sono le istanze LGBT, perché Diana reagisce con malcelato fastidio alle profferte d’amicizia di Barbara, scambiandone la disperata ricerca d’amicizia per avance saffiche (reazione conforme alla mentalità degli USA reaganiani in cui è ambientato il film, assai meno a quella della Hollywood obamiana e bideniana che lo ha prodotto – Zack Snyder, artefice dei film sulla Justice League, si è più volte difeso dalla “accusa” d’essere “di destra”)?

Possibile che Wonder Woman 1984 sia un ritorno agli anni ’80 assai oltre la sua ambientazione? Sia mai che, nonostante la propaganda “liberal” di Gal Gadot e l’intenzione di Patty Jenkins di portare in scena un “cattivo” ispirato a Trump, il film sia una reazione al feroce rincretinimento in cui si sta gettando almeno una generazione, e che invece d’insegnare ai ragazzi che devono essere fragili, solitariamente appiccicati allo smartphone e grigiamente conformisti pur ammantandosi con i colori dell’arcobaleno, si torni a lasciar loro credere che gli eroi sono belli e soprattutto forti (come Diana, ma anche come Bud Spencer e Clint Eastwood), che è gettarsi in un’avventura è più nobile di piagnucolare su Facebook, che la solitudine è la più brutta malattia del Terzo Millennio (con tanti saluti all’isteria da Covid), che il vigore fisico non è questione di volgarità ma di salute?

“Wonder Woman 1984” non è un’opera d’arte, ma offre qualche speranza.

(di Tommaso de Brabant)

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