Heartland

Heartland ed Eurasia, il punto di vista di Giannicola Saldutti

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Negli ultimi mesi dello scorso anno i riflettori della politica internazionale si sono rivolti a quelle aree geografiche prossime o proprie dell’Heartland, l’area pivote, vero fulcro della geopotlitica mondiale seguendo la massima del geografo Harold McKinder “Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland: chi controlla l’Heartland, comanda l’isola-mondo: chi conrolla l’isola-mondo comanda il mondo”.

La visione McKinderiana delineata all’inizio del XX secolo, al di là delle reinterpretazioni non sembra aver perso la sua attualità se si osserva la politica estera della talassocrazia americana. A spiegarci cosa sta accadendo nei “Balcani eurasiatici” (ovvero le repubbliche caucasiche e i cinque stati centro-asiatici così definiti dall’ultimo interprete di McKinder, Zbigniew Brzezinsky) e non solo, Giannicola Saldutti, già intervistato da Oltre la linea a proposito dei Balcani “europei”.

°Le veementi proteste imperversano nelle strade di Minsk, azeri ed armeni combattono con violenza contendendosi le alture del Nagorno Karabakh, mentre il Kirghizistan ripiomba nuovamente in preda alla completa instabilità politica. Le cronache recenti sembrano non lasciare spazio a dubbio alcuno: nello spazio post-sovietico qualcosa sembra essersi rotto, Mosca sembra in procinto di affrontare quella che potrebbe sembrare una “tempesta perfetta” ai suoi danni. È davvero così?

Heartland, il punto di vista di Saldutti

 

Chi è rimasto meno indifferente alle vicissitudini che hanno interessato le aree del Rimland nell’ultimo ventennio, in realtà, sa bene che la storia si ripete e che, a maggior ragione, i conflitti irrisolti prima o poi presentano il conto. La Federazione Russa, in questo senso, è costretta a convivere da tempo con diversi fronti aperti sia al suo interno che nel suo spazio più contiguo, quello che la lingua russa con una certa sottile ambiguità definisce come Bližnee Zarubež’e, ossia l’ “Estero Vicino”. L’aggettivo “vicino” lascia intendere parecchio quanto il Cremlino abbia a cuore i destini dei Paesi che si stagliano sui suoi corridoi principali: le distese ucraine e le foreste bielorusse, l’accesso al Mar Nero, le alture del Caucaso, le steppe dell’Asia centrale e, molto recentemente, le rotte artiche rappresentano vasti spazi da monitorare a tutti i costi dal punto di vista strategico e geopolitico, occorre saggiarne di volta in volta il termometro politico. Certo è che la dissoluzione dell’Urss e l’indipendenza di ben sedici repubbliche rende molto complessa la “gestione” del problema.

Il Maidan ucraino, nonostante non abbia -dati alla mano- per nulla giovato a Kiev, è ancora una ferita aperta, scongiurare lo stesso scenario in Bielorussia senza ricorrere alla forza è obiettivo primario. I rapporti personali non proprio idilliaci tra Putin e Lukašenko e le posizioni ondivaghe assunte da Minsk negli ultimi anni (soprattutto nei rapporti con l’Unione Europea, impegnata ipocritamente a bacchettare qualsiasi forma di dittatura, ma fino a pochi mesi fa dimostratasi sempre molto accondiscendente nei confronti di Bat’ko) hanno spesso creato grattacapi al Cremlino. Difficile ricalcare, però, lo stesso scenario ucraino in quel di Minsk: fin quando le forze armate del Paese resteranno fedeli a Lukašenko, ma soprattutto fin quando il Paese manterrà la sua storica componente politico-sociale filorussa profondamente innervata, sarà difficile ricreare le stesse identiche condizioni che hanno consentito a Kiev di “smarcarsi”. La recente ambizione di “multivettoriale” di Minsk è dovuta ad un fattore ben preciso: la Bielorussia, di punto in bianco, è passata dall’essere “periferia” dell’impero a snodo strategico cruciale per due progetti infrastrutturali entrambi davvero poco o relativamente poco convenienti per le ambizioni di Mosca: parliamo della Via della Seta cinese e, soprattutto, dell’ambizioso E40 di matrice polacca.

Proprio Polonia e Lituania sembrano essere senza dubbio le più interessate ad un eventuale ribaltone politico bielorusso, l’appoggio e l’ospitalità alla leader dell’opposizione Svetlana Tichanovskaja da parte di Vilnius e la copertura mediatica ed il supporto logistico-organizzativo fornito dal canale privato polacco Nexta ne sono una prova inconfutabile. Basterebbe, del resto, rievocare un po’ di storia: la Confederazione Polacco-Lituana è ancora un ricordo vivo nell’establishmentdi Varsavia, il sogno di una grande Polonia od morza do morza(che in polacco suona come “da mare a mare”) è ricalcato dal progetto infrastrutturale dell’E40, nel quale la Bielorussia risulta essere un tassello fondamentale. La rete di trasporto idrica lunga più di 2000 km che collegherebbe il porto di Danzica fino a quello di Cherson (Mar Baltico-Mar Nero) passa per il territorio bielorusso. La realizzazione di un progetto del genere compatterebbe Polonia, Ucraina e Bielorussia in un fronte economicamente autonomo e sostenibile, pieno di forza lavoro e militarmente incoraggiato dalle strutture Nato, che a quel punto sarebbero lì a lambire i confini con la Russia. Il doppio gioco tentato da Lukašenko, però, ha fino ad ora pagato poco, considerando il subitaneo dietro-front di Bat’ko di fronte ad un Vladimir Putin davvero poco perplesso: la Russia sembra mantenere saldo il controllo su Minsk, gli eventi recenti hanno ridimensionato tutte le ambizioni multilaterali e velatamente rimesso in gioco anche la proposta russa di “Stato riunito”. C’è da scommettere che verranno utilizzati tutti i mezzi previsti dalla tanto discussa dottrina Gerasimov pur di evitare un rovinoso cambio di fronte.

A tal proposito, il Caucaso potrebbe rappresentare molto più che un grattacapo: le rinnovate e persistenti ambizioni turche non sono più un mistero per nessuno. Sia l’Ucraina (il recente incontro tra Erdoğan e Zelenskij rende palese l’idea) che l’Azerbaigian sono saldamente legati alle politiche di Ankara. Baku è una forza ormai palesemente eterodiretta dai turchi, soprattutto dal punto di vista militare: il massiccio utilizzo di droni di matrice turco-israeliana contro la seppur tenace resistenza dell’artiglieria convenzionale armena nello scenario del Nagorno Karabakh è prova inconfutabile della voglia di Ankara di apparire anche in qualità di affidabile rivenditore di mezzi militari che si stanno dimostrando molto validi in termini di letalità ed efficacia.

La Russia è chiamata a portare le sue difese ad un nuovo livello, è ora di dimostrare l’effettiva efficacia di una organizzazione militare come l’ODKB non soltanto fornendo ad Erevan un appoggio in termini di rifornimento d’armi. Nonostante Mosca sia la sede favorita ad ospitare le future ed auspicabili trattative di pace, gli sforzi diplomatici di Lavrov potrebbero non essere sufficienti. La rinnovata tensione azero-armena accende un focolaio bellico direttamente nel cortile di casa con l’aggiunta di una componente infausta, ossia l’ormai certo dispiegamento da parte dei turchi di milizie jihadisteche potrebbero far salire la temperatura nel Caucaso, con effetti letali su Daghestan e Cecenia. Gli attentati sventati pochi giorni fa dai servizi di sicurezza russi a Volgograd potrebbero essere solo l’antipasto di un menu indigesto. Ma nulla che a Mosca non siano già abituati a fronteggiare.

 

Kirghizistan, una questione spinosa ai confini dell’Heartland

Quanto accaduto ai confini dell’Heartland, il Kirghizistan, invece, deve essere letto sotto un altro punto di vista. Parliamo di un’area geografica, quella dell’Asia centrale, appetibile sì a diverse forze esterne, ma per altri motivi. Va considerato che il Kirghizistan rappresenta lo spazio politico che nell’ultimo trentennio si è mostrato meno continuo rispetto ai Paesi confinanti, tutti esempi di proverbiale “stabilità” (si pensi al dominio incontrastato di figure come Nazarbaev, Rahmon o Karimov). Tuttavia, nonostante i vari ribaltoni politici a Biškek hanno ben chiara una cosa: il rapporto privilegiato con Mosca è fuori discussione, la precarissima tenuta economica del Paese, per non parlare poi delle strutture militari russe installate in esso, non consentono alcun tipo di volo pindarico. Vi sono sempre, poi, la storia e la geografia a farla da padrone: le preoccupazioni di Biškek in materia di politica estera prendono forma da sempre in senso anti-cinese, dal momento che i russi sono visti più come garanti dell’indipendenza kirghiza di fronte all’aggressività economica di Pechino che come degli invasori (basti pensare che la Rivoluzione dei Tulipani del 2005 venne innescata proprio da una concessione territoriale ai cinesi ritenuta illegittima dai più). Pertanto, accomunare e leggere le rivolte bielorusse con la stessa chiave dei fatti kirghizi ha poco senso.

Avere il controllo totale su uno spazio tanto vasto e variegato dal punto di vista politico e militare come quello dell’Heartland richiede delle spese davvero ingenti. Mosca, in questo senso, non vuole correre nessun rischio, considerando il budget contenuto riservato alle spese militari: ecco spiegato l’atteggiamento cauto del Cremlino di fronte agli eventi recenti. L’eccessiva militarizzazione fu una delle cause che portarono l’Urss al collasso economico e politico.

Le tesi di Brzezinski sulla “Grande Scacchiera” eurasiatica nel Rimland e nell’Heartland sono funzionali proprio a questo scopo: indebolire l’influenza russa, contrarre le sue ambizioni geografiche colpendo ripetutamente sui suoi fronti più caldi, inducendola ad intervenire approntando manovre su larga scala dove è facile impantanarsi (come in Cecenia e in Transnistria negli anni ’90). La dottrina Gerasimov è stata varata, infatti, proprio in virtù di ciò. L’esigenza è quella di dover operare su più livelli, in maniera più agile, più elastica, più subdola e più veloce, rispondendo colpo su colpo facendo leva sulla guerra ibrida, sull’inquinamento delle informazioni, sulle nuove tecnologie e sullo snellimento dell’apparato militare. La “presa silenziosa” della Crimea del 2014 da parte degli “omini verdi” ne è un esempio lampante, così come l’utilizzo di compagnie militari private in Siria, nel Donbass ed in Africa centrale.

(di Emilio Bangalterra)

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