Pupi Avati torna con "Il signor diavolo": tra spiritualità, politica e Strapaese

Pupi Avati torna con “Il signor diavolo”: tra spiritualità, politica e Strapaese

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1952, Italia democristiana: dal Ministero di Grazia e Giustizia, un sottosegretario che parla per slogan manda nella Laguna veneta un funzionario, con l’incarico di indagare su di un crimine commesso fra ragazzini. L’omicida sostiene d’aver soppresso il diavolo, e l’indagine (parallela a quella poliziesca) deve smentire che una sacca di fanatismo vetero-cattolico abbia offerto il contesto dell’assurdo crimine: la DC di De Gasperi intende liberarsi dalle accuse di oscurantismo.

Pupi Avati torna all’horror, con la consueta (per lui; un unicum, nel cinema di genere) ambientazione padana. Il film è tratto da un suo stesso romanzo, eponimo (edito da Guanda nel 2018). Nelle interviste egli ha sottolineato d’aver pensato alla sua educazione, sotto il cattolicesimo preconciliare, quando tutto poteva essere magico, e perciò qualsiasi cosa poteva far paura. Avati è stato guidato dalla nostalgia, di quando era, come i personaggi del film, chierichetto, e tutt’attorno c’era il “mondo piccolo” di Guareschi. Mondo che piccolo, di fatto, non era: perché aperto su di una realtà altra, più grande.

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Il signor diavolo” è, come due pietre miliari horror, “L’esorcista” e – ancor meglio – “Picnic a Hanging Rock” (più vicino, il bellissimo film di Peter Weir, a quello di Avati, col suo retroterra ctonio di pulsioni e repressioni), la storia d’una doppia inchiesta: una poliziesca-giudiziaria, legata allo svolgimento materiale della vicenda in oggetto; l’altra legata ad una realtà altra e superiore. Come in quei due film, in “Il signor diavolo” non è necessario tanto spiegare concretamente quel che è successo, quanto accedere ad una dimensione invisibile ed inattuale, eppure presente e fortissima.

“Il signor diavolo” è un ritorno all’Italia non ancora stravolta dal Concilio Vaticano II e dal Sessantotto: l’Italia ancora genuinamente ed ingenuamente cattolica. Sbaglia molto, il sottosegretario ministeriale che manda “a far luce” sulla vicenda lo spaesatissimo topo d’archivio, a parlare d’oscurantismo religioso: l’oscurantismo arriverà dopo, con il disincanto, con la negazione dello spirito e della magia. Quando la luce elettrica impedirà di vedere le stelle e, come notava Pasolini, farà sparire le lucciole.

Lo precisa subito Carlo, il bambino interrogato: chiama Satana “il signor diavolo” perché anche del Maligno si deve aver rispetto: è pur sempre uno spirito e, prima che il fulgore artificiale dei Lumi oscurasse quel che davvero brilla, degli spiriti si aveva riguardo. Una storia spirituale che ha anche una dimensione sentimentale: Emilio è diabolico non tanto perché figlio e/o affiliato a un culto satanico, ma perché viola l’amicizia tra Carlo e Paolino. Perduta questa, comincerà la catabasi di Carlo.

“Il signor diavolo” è anche un ritorno a Strapaese, nell’Italia che parla in dialetto ed in cui un cognome forestiero fa macchia; l’Italia in cui l’infanzia era tutta questione di bicicletta, fionde, vertigini per la visione di qualche centimetro di pelle di ragazza, patti di sangue col migliore amico. L’Italietta (ed il termine non è più usato con disprezzo) provincialotta e robusta di cui riaffora (anche su Facebook) la nostalgia: soprattutto degli anni Settanta. Perché sì, il film è ambientato nei Cinquanta, ma è evidentissima l’ispirazione ai film “di Serie B” italiani di due decenni dopo: gli horror italiani con nel cast pletore di caratteristi (e qualche volta, di divi) hollywoodiani, seguiti allo spropositato successo di “L’esorcista”.

Punta molto su di una scelta esasperata: quella d’una fotografia – curata con maestria da Cesare Bastelli – cupissima, quasi in bianco e nero. Tutto è scuro, quasi quanto alcuni volti. Le ambientazioni sono soffocanti, siano esse stanzini tenebrosi o gli spazi apertissimi della laguna, con la loro desolazione. Trasparenti le citazioni da “Il presagio”, “Rosemary’s Baby” ed “It”.

Il piccolo Filippo Franchini è bravissimo nel complicato ruolo di Carlo, e l’esangue Gabriel Lo Giudice rende bene lo spaesamento di Momenté. Massimo Bonetti, veterano dei film di Avati, già con Strehler a teatro ed in “La squadra” in TV per anni, è il fosco giudice istruttore Malchionda. A completare l’atmosfera da film “cult” degli anni Settanta, i camei di Lino Capolicchio (l’ansimante don Zanini), Alessandro Haber (l’esorcista reticente), Andrea Roncato (il medico legale omertoso) e Gianni Cavina (il sacrestano fanatico). Chiara Caselli, nascosta dietro la veletta nera, è assai inquietante. Irriconoscibile, sotto una panciona posticcia, il cantante Cesare Cremonini.

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“Il signor diavolo” è un signor film dell’orrore, intelligente e carico d’atmosfera, con alcune immagini degnissime di restare in un’antologia del cinema dell’orrore.

(di Tommaso de Brabant)

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