Clint Eastwood contro il politically correct

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Fregandosene delle spade di Damocle degli altri VIP che possono solo inchinarsi dinanzi alla sua carriera cinematografica,  Clint Eastwood, votando Donald Trump, ha reincarnato alla perfezione il personaggio da lui interpretato in Gran Torino. Quel Walt Kowalsky scorretto, incazzato con la gioventù rammollita e sbruffona che lo circonda e che vede nel giovane ragazzo orientale – che proteggerà fino alla morte – la sua idea di vita; regole, rispetto, fedeltà, coerenza, sani valori, principi solidi.

Con lui la sinistra lib-dem, che vedeva in Hillary Clinton una sottospecie di Maria Maddalena in salsa laica nonostante l’appoggio alla guerra in Iraq al Senato nel 2002 e il ruolo di primissimo piano nel fomentare i cambi di regime e le politiche imperialiste in Libia ed in Siria, non ha mai avuto un rapporto idilliaco.

Dopo il primo mandato di Barack Obama, reputato da mezzo establishment occidentale come il cambiamento che avanzava nonostante gli attacchi con i droni e la vendita di armi a Paesi esteri facciano passare l’amministrazione di George W. Bush come pacifista, Clint Eastwood non gli lesina sonore bordate. Da Guantanamo alla situazione in Afghanistan fioccano critiche su critiche che lo toccheranno sul vivo – si scomoderà personalmente a rispondere tramite l’account Twitter della Casa Bianca – ma che a nulla serviranno.

Il 20 gennaio 2016, giorno in cui “sbarackerà” dallo Studio Ovale per lasciare posto a Donald Trump, la situazione è la medesima se non peggiore: Guantanamo ancora funzionante nonostante le roboanti promesse in campagna elettorale, un Iraq che è solo una piccola fiammella dell’enorme incendio in corso in Medio Oriente e climi da Guerra Fredda a causa della non accettazione del crescente prestigio in termini geopolitici della Russia, la quale sta progressivamente inaugurando una nuova era multipolare che sta scardinando l’influenza globale di Washington dopo il 1989.

Se si pensa che dopo la realizzazione di American Sniper, nel quale viene raccontata la storia del “diavolo di Madani” Chris Kyle, Clint Eastwood è stato tacciato di essere un sostenitore dell’attacco preventivo dai benpensanti, queste critiche possono risultare alquanto svarionate. Non è così. Negli occhi sofferenti di Bradley Cooper quando è costretto ad uccidere un bimbo nella scena iniziale del film, Clint Eastwood trasmette al grande pubblico la sua idea del conflitto, piena di repulsione, di ripudio, di orrore, di raccapriccio.

Ed è qui, scavando ed analizzando, che si riesce a capire il perché dell’endorsement a Donald Trump, colui che considera la NATO obsoleta e la politica da gendarmeria del mondo folle, il disgusto verso quell’establishment democratico che si è professato pacifista a parole ma che si è fatto fruitore di un imperialismo più subdolo, più vile, perché attuato mediante terzi senza mettere la faccia, i cosiddetti «boots on the ground». Quell’imperialismo che sarebbe stato considerato come la pedina sacrificabile dalle varie Madonna, Lady Gaga, Katy Perry, Laura Boldrini all’altare del loro sogno universalista caratterizzato da tolleranza, accoglienza, diritti civili, estremismo femminista. Per nostra fortuna, il 9 novembre, si è avuto un altro film, dove Clint, da maestro, ha contribuito alla regia e alla sceneggiatura. Grazie, ancora una volta.

(di Davide Pellegrino)

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