Cari “democratici”, sull’Europa tedesca Alberto Bagnai ha ragione

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Hanno destato scalpore le parole pronunciate dal Professore e senatore della Lega Alberto Bagnai in Senato che ha ricordato quando la Germania invase la Polonia nel ’39 «perseguendo a modo suo l’obiettivo di una unificazione del continente a suo uso e consumo» facendo un parallelo con la storia dell’integrazione europea a guida tedesca. Indignata, il Ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova ha osservato: «Nel suo intervento al Senato, il senatore della Lega Alberto Bagnai ha paragonato l’invasione nazista della Polonia al percorso di unificazione dell’Ue. Un parallelo vergognoso e inopportuno. Forse il senatore dovrebbe rileggere i libri di storia».

Per il viceministro dell’Economia Antonio Misiani è allucinante questo paragone tra l’Unione europea e l’invasione tedesca della Polonia nel 1939. Salvini e la Lega dovrebbero prendere le distanze alla velocità della luce da posizioni così demenziali. Purtroppo per questo Paese, temo proprio che non lo faranno. Il deputato Pd Emanuele Fiano chiede le scuse di Bagnai nei confronti di milioni di vittime della violenza nazista. Bellanova e i rappresentanti del Pd dovrebbero fare uno sforzo e leggere cosa scrive Perry Anderson, storico accademico e saggista britannico, sulla London Review of Books. In un brano tradotto da Voci dall’Estero, Anderson propone una distaccata e lucida analisi delle istituzioni europee sin dalle loro origini, molto distante dal dilagante e superficiale conformismo del politicamente corretto, dalla quale emerge che tra i principali protagonisti dell’integrazione europea furono accolti con tutti gli onori importanti esponenti del partito nazionalsocialista tedesco o personalità ad esso vicine. All’interno delle diverse istituzioni europee essi continuarono a perseguire, pur in forme nuove e diverse, quel disegno di unificazione dell’Europa sotto l’egemonia tedesca già tentato durante il terzo Reich. In questa prima parte si prende in esame l’azione di uno degli organi più decisivi e meno trasparenti dell’Unione europea, la Corte di Giustizia. La tesi di Alberto Bagnai dunque è corretta, cari democratici indignati.

Ne riportiamo solo un estratto:

L’Unione, come la conosciamo oggi, è una organizzazione complessa composta da cinque istituzioni principali: la Commissione europea, la Corte di giustizia europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo e la Banca centrale europea. Si può iniziare l’analisi prendendo in considerazione l’espressione che convenzionalmente definisce la storia del suo sviluppo, “integrazione europea”. Questa espressione, come ha mostrato Patel, proviene dall’America ed è stata adottata per evitare un altro termine troppo caratterizzato dagli scopi tattici della politica degli anni ’50.  La parola che ha sostituito era “federazione”, termine rifiutato dai governi e dai centri di interessi esistenti allora, anche se sostenuto con ardore da una piccola ma impegnata minoranza di attivisti. Per i governi e per i loro simpatizzanti accademici, “integrazione” era un termine più neutro per indicare il progresso verso un ideale, per il momento, mantenuto in pectore. In nessun campo è stato più utile che nel lavoro della Corte di giustizia, che è stata, come sottolinea van Middelaar, la prima promotrice del “passaggio all’Europa” dopo il Trattato di Roma.

Oggi la Corte resta, tra tutte le istituzioni dell’Unione, la più nascosta al pubblico. Situata con discrezione in Lussemburgo, non esattamente un crocevia europeo, e composta da giudici nominati – uno per paese – dagli Stati membri, i suoi procedimenti sono nascosti agli occhi del pubblico; le sue decisioni non consentono la menzione dell’opinione dissenziente; i suoi archivi garantiscono un accesso minimo ai ricercatori. Nel suo modus operandi, la Corte di giustizia europea è l’antitesi della Corte Suprema degli Stati Uniti, i cui emolumenti supera largamente – il suo presidente riceve uno stipendio di 400.000 dollari, oltre a molte indennità; il presidente della Corte suprema a Washington un misero stipendio di $ 277.000. Le sue origini risalgono alla prima fase dell’integrazione: la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nata dal Piano Schuman era stata dotata di una Corte di Giustizia, poi estesa alla Comunità Economica Europea istituita dal Trattato di Roma cinque anni dopo, e poi all’Unione europea creata a Maastricht.

Grazie al lavoro pionieristico di una giovane storica lussemburghese, Vera Fritz, abbiamo ora uno studio accademico dettagliato sulla composizione della Corte nei primi vent’anni della sua esistenza. Le sue scoperte sono illuminanti. C’erano sette giudici fondatori e due avvocati generali. Chi erano? Il presidente del tribunale, l’italiano Massimo Pilotti, era stato vice segretario generale della Società delle Nazioni negli anni ’30. Lì aveva operato come longa manus del regime fascista di Roma, consigliando a Mussolini quali contromisure adottare per proteggere l’Italia dalla condanna della Società delle Nazioni per i suoi interventi in Etiopia. Dimessosi dal suo incarico nel 1937, Pilotti prese parte ai festeggiamenti a Genova per la conquista dell’Etiopia; e durante la seconda guerra mondiale diresse l’Alta corte di Lubiana occupata dopo l’annessione della Slovenia all’Italia, dove la resistenza fu debellata con deportazioni di massa, campi di concentramento e repressione militare e poliziesca. Il giudice tedesco della corte, Otto Riese, era un nazista così devoto che senza alcuna costrizione – trascorse la guerra come accademico in Svizzera – mantenne la sua appartenenza al Partito nazionalsocialista fino al 1945. Il suo connazionale Karl Roemer, avvocato generale della corte, trascorse la guerra nella Parigi occupata gestendo società e banche francesi per il Terzo Reich; dopo la guerra, sposò la nipote di Adenauer, e agì come avvocato difensore delle Waffen SS imputate del massacro degli occupanti del villaggio francese di Oradour. L’altro avvocato generale, Maurice Lagrange, era stato un alto funzionario del governo di Vichy, pienamente impegnato nell’ideologia di una “rivoluzione nazionale” al fine di spazzare via l’eredità della Terza Repubblica. Agendo come uomo di collegamento tra l’apparato giudiziario del Conseil d’Etat e l’apparato politico del Consiglio dei ministri, Lagrange fu incaricato di coordinare la prima ondata di persecuzioni degli ebrei francesi. Quando Laval prese le redini di Vichy nel 1942, trasferendo Lagrange al Conseil d’État, Pétain lo ringraziò per la sua “rara abnegazione” verso la funzione legislativa e amministrativa del regime, e Lagrange rispose “per me è stato un grande privilegio essere così strettamente coinvolto nell’opera di rinnovamento nazionale da lei intrapresa per la salvezza del nostro paese. Sono convinto che ogni francese possa e debba prendere parte a quest’opera.” Dopo la guerra fu scelto dagli americani per aiutare a democratizzare la pubblica amministrazione in Germania e da Monnet per contribuire alla stesura del trattato che istituisce la Comunità del carbone e dell’acciaio.

Dunque, cari dem, studiate VOI perché le parole forti del senatore Alberto Bagnai sono tutt’altro che campate per aria.

(di Roberto Vivaldelli)

 

 

 

 

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