Il “giovane” consumista, illuso delle libertà: uno spunto di riflessione

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Nell’incipit del fortunato, ma oggi pressoché dimenticato, saggio di Francesco Donadio e Marcello Giannotti dal titolo Teddy-boys, rockettari e cyberpunk si può riscontrare una visione ben chiara e precisa circa l’effettiva sussistenza del profilo del “giovane”: «Dov’è il teenager prima degli anni Cinquanta? Insomma, che cosa fa, dove si nasconde? Molto semplicemente, l’adolescente teenager, almeno come lo intendiamo oggi, prima degli anni Cinquanta non esiste. Prima o si era adulti pronti a lavorare, metter su famiglia e fare la guerra, o si era dei bambini, pronti per diventare adulti: non era stata ancora inventata una moda “per” adolescenti, e tanto meno un genere musicale fatto apposta per loro»1.

Dinanzi ad un’impostazione del problema tanto genuina quanto scomoda per il valore sociale che il “giovane” detiene al giorno d’oggi, è da ricordare che l’etica del progresso ha sempre trovato negli entusiasmi del giovane lo strumento precelso attraverso cui diffondere e consolidare i propri contenuti.

Ciò è valso tanto per i secoli delle rivoluzioni politiche quanto per i secoli delle rivoluzioni tecnologiche, nelle quali, tuttavia, si assiste ad un fenomeno che solo grazie al consumismo si poteva palesare: il prolungarsi nel tempo biologico di un individuo non già dello “spirito”, ma dell’identità giovanile in quanto specifica dimensione dell’essere al mondo.

Ora, l’esistenza commerciale, solitamente intesa nella sua qualità di categoria per l’indagine sociologica, risulta possibile a condizione che si trasformi un valore della vita individuale, quale può essere la gioventù, in un vero e proprio cespite di mercato.

La conseguenza principale di un processo simile può essere delineata nella maniera che segue: essere “giovani” offre al singolo possibilità sempre minori di essere “spensierato”, “leggero”, ma soprattutto “se stesso”, e prevede il rispetto, cieco e incondizionato, di un decalogo di precetti, severi quanto altri ma in deroga ai quali si è spesso considerati non depositari di alcuni diritti basilari della convivenza civile.

Se, dunque, l’omologazione dei valori individuali a quella delle masse scongiura il grande pericolo dell’esclusione, e, in breve, della morte sociale, va da sé che ad attanagliare maggiormente il giovane moderno – purtroppo, non solo negli ultimi due decenni – è l’ansia di non voler restare solo. Ne consegue, ad esempio, che l’esigenza di formare il sabato sera comitive in continuo rischio di collasso ha assunto le sembianze di un ferreo imperativo categorico.

Nel prestare fede alla vulgata che vuole tale esigenza indispensabile ai fini della maturazione dell’adolescente, sono da rilevare i pericoli che il prolungarsi incontrollato, con l’avanzare dell’età, di certe attitudini implica per l’individuo. Sono infatti pochi i gruppi di persone che scelgono di aggregarsi per onorare una comunanza di esperienze e di gusti, o per il loro senso della condivisione e della convivenza pacifica.

Benché, dunque, si sia realmente perso il vero senso del rapporto umano, non è peregrino ritenere che lo si è confuso. Ciò è dimostrato dal fatto che non sono più considerati i gradi di intensità dei rapporti umani. Si tende, infatti, sempre più a generalizzare il concetto di “amico” con altri più blandi come “compagno di uscite”, “conoscente”, “collega universitario”.

Il gruppo, quindi, perde il proprio valore originario per trasformarsi in qualcosa di più simile ad un agglomerato umano, o, meglio ancora, ad uno “sciame”. Vero è che quest’ultimo presenta pure una sua propria ragione di esistenza, ma non nella misura in cui segna l’apparente tramonto di dinamiche indispensabili al mantenimento del gruppo, tra le quali le gerarchie – soppiantate da altre, per altro particolarmente feroci – , il comune senso della sopravvivenza e dell’esperienza convissuta, come già detto, e in aggiunta, la divisione del lavoro.

In luogo della vicinanza sopravviene la prossimità, alla specialità e dei gusti e delle inclinazioni, di un generico saper-tutto-fare e saper-tutto-dire, e ciò conduce a un generale appiattimento delle prospettive personali di vita, sostituite da un’etica della vita intesa come fonte di eterno intrattenimento.

Il giovane moderno, inoltre, vede sempre meno l’aggregazione o il ritrovo conviviale come un’occasione di dialogo e di confronto, nel quale alternare in maniera equilibrata il serio con il faceto, ma come occasione per fondare un’esistenza basata sul luogo comune e sull’adagio mentale, e per ritenersi non già acritico fruitore, consumatore, ma testimone di un progresso tecnologico del quale in realtà non possiede facoltà alcune di prendere parte attiva. In una società dove la libertà, inizialmente intesa come garanzia per il vivere civile giuridicamente strutturata, è sempre più confusa con l’ebbrezza di un atto sempre più avulso dalla multiforme sostanzialità del reale, la scelta di vita ha teso ad atomizzarsi, esulando dal concetto di comune obiettivo cui tende sia un singolo gruppo sia la maggior parte di essi in un determinato contesto.

Le parti che compongono uno sciame, secondo una felice similitudine di Zygmunt Bauman, teorico della società liquida – un sintagma, questo, che può trarre in inganno su determinati aspetti del problema – e studioso di riferimento per analisi che ruotano attorno a questo argomento, non rendono giustizia all’insieme che formano, comportandosi come “particelle autopropellenti”, munite di una “solidarietà puramente meccanica”: ogni elemento ripete singolarmente i movimenti degli altri dall’inizio alla fine, e nel caso dei consumatori, il lavoro così eseguito è quello del consumo2.

Il benessere come garanzia di successo sociale viene fatto passare per panacea per tutti i problemi, compreso quello della libertà di scelta, il caposaldo della maturità umana. Nella nuova realtà sociale per ogni individuo (e continuiamo a riferirci anche a gruppi giovanili) la sicurezza non è più un valore guidato e gestito dall’insieme, ma dalle tendenze esterne: sempre Bauman parla di “fede nei numeri”. Corollario: un costume viene seguito non in base alle esigenze del tempo, ma in base alla mole di individui che per contingenza lo segue.

La società dei consumi, per esistere, deve rendere il bisogno del singolo continuamente rinnovabile: il ciclo dei bisogni proposti/imposti dall’alto non si deve mai spezzare. Ciascun neofita del consumismo viene convinto sin dall’inizio che l’adesione a determinate tendenze determinerà non solo accettazione sociale ed inclusione – dinamiche che da sempre appartengono al gruppo – ma realizzazione piena e incondizionata, e soprattutto comoda, dei propri obiettivi, il tutto attraverso le istruzioni di uno strumento come la televisione, potente nei messaggi che invia, e soprattutto nella veste con cui essi vengono propinati.

L’immagine è il canale di comunicazione attraverso il quale la società dei consumi non soltanto forma il giovane, ma anche il nuovo valore del confronto. Ciascuno, una volta realizzato secondo questi processi, giustifica ogni forma di soverchieria verso l’altro, fisica e psicologica, in base a un confronto sui tempi: quanto prima l’adesione agli stilemi del consumo è avvenuta, tanto più gratificante e coinvolgente sarà la partecipazione ai voli dello sciame.

Per quanto vera possa essere la visione del gruppo così smembrato, i nuovi valori difficilmente riusciranno a modificare, in meglio o in peggio, la logica del branco. Ansie da previsione, da prestazione e da competitività nascosta (sotto una parvenza di rassicurante buonismo) sono i disagi sui quali i giovani credono e sperano di sorvolare, ma che in ultima analisi tendono a rendere insopportabili, e quindi indesiderabili, gli stessi rapporti sociali.

Siccome la panacea per tutti i problemi dei giovane consumatore, come già detto, è la varietà e la libertà di scelta, quale migliore soluzione che l’adesione ad una realtà sociale alternativa? Cioè, quella virtuale, della Rete? Secondo le prime, errate, ipotesi sul perché del fenomeno della droga, il giovane disagiato in famiglia sia per condizioni finanziarie che per condizioni affettive cercava nel ritrovo con altri drogati una realtà alternativa, partecipando alla quale credeva di poter smentire a se stesso i tristi modelli umani vissuti.

In maniera non dissimile il giovane degli anni 2000 cerca nelle comunità virtuale un canale di comunicazione che sostituisca all’impatto sempre meno tollerato della parola udita quello più blando della parola scritta, anzi virtualmente scritta.

I rapporti tra giovani sono sempre più preferiti in questa veste: intessuti attraverso un medium piuttosto che direttamente, che oltretutto crea l’illusione di una finestra aperta sul mondo piuttosto che nella semplice realtà quotidiana, già adulterata dalle dinamiche testé descritte. L’illusione della libertà di scelta investe anche la preferenza dell’amico o del partner in ballo nella comunità virtuale, attraverso una semplice pressione sul tasto sinistro del mouse, gesto che diviene sempre più voluttuoso, forse anche più di un contatto fisico.

La rete annulla nella nostra percezione il senso della distanza, alterando anche la percezione del tempo: il giovane può rimanere per ore dinanzi al proprio terminale, meccanizzando i propri movimenti e vedendo alterati i propri umori per una mancata risposta presso le comunità virtuali.

Eppure, in questa apparente stasi, nella mente del giovane prende sostanza la consapevolezza per cui l’esistenza commerciale gli conferisce la possibilità di avvalersi di una nuova e non regolata gerarchia per imporsi sull’altro con il minor sforzo possibile, avendo ormai la società dei consumi giustificato il fondarsi, nella odierna coscienza collettiva, di un’autostima fondata sulla terapia della parola a danno di una ben più temuta, perché foriera di fatiche dalle quali il progresso illude di sollevare il singolo, autodisciplina.

A tale proposito, a conclusione di quanto disaminato, torna utilissimo il seguente, perentorio asserto di Paolo Barnard circa le più dirette determinazioni di siffatto stato di cose: «i Visibili possono, ottengono, sono amati da molti e rispettati, hanno personalità riconosciute, sono vincenti, gli è permesso tanto. I non visibili non sono, proprio non esistono, non contano, non hanno potere, di amore ne vedono pochissimo, sono indistinguibili, sono la ripugnante massa, essi pagano sempre tutto, non sono concesse loro scappatoie».3

(di Elio Cassiodoro)

1F. Donadio, M. Giannotti, Teddy-boys, rockettari e cyberpunk, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 9.

2Z. Bauman, Homo consumens, Trento, Erickson, 2007.

3P. Barnard, Il più grande crimine, Edizioni digitali Mabed, p. 75

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