I segreti della “Guerra al Terrore”, parte II: Fabbricare una guerra
James Risen è il giornalista investigativo americano che, dieci anni prima di Edward Snowden, cercò di rivelare gli abusi della Nsa, ma che fu fermato dal suo stesso giornale: il New York Times, che nel 2004 insabbiò la storia per oltre un anno, su pressione della Casa Bianca. Su Oltre la Linea, pubblicato a puntate, l’articolo completo pubblicato su The Intercept che svela i retroscena della “War on Terror” di Bush e le pressioni delle agenzie di Intelligence sulla stampa statunitense.
Qui la prima parte. Qui la terza parte.
Dopo l’11 settembre, l’amministrazione Bush ha fatto sempre più pressioni sulla stampa per mettere a tacere articoli scomodi. Lo ha fatto così spesso che mi sono convinto che l’amministrazione stesse invocando la questione della sicurezza nazionale per mettere a tacere anche le storie che erano semplicemente imbarazzanti a livello politico. Alla fine del 2002, ad esempio, ho chiamato la CIA per chiedere il loro commento sull’esistenza di una prigione segreta della CIA in Tailandia, creata per ospitare detenuti appartenenti ad Al Qaeda, incluso Abu Zubaydah. In risposta, i funzionari dell’amministrazione Bush hanno chiamato il Times e censurato l’articolo.
Non ero d’accordo con la decisione del giornale, perché credevo che la Casa Bianca stesse solo cercando di nascondere il fatto che la CIA avesse iniziato a creare prigioni segrete. Alla fine ho riportato le informazioni solo un anno dopo.
Nel 2014, il rapporto del Comitato di Intelligence del Senato sul programma di tortura della CIA fornì nuove informazioni sulle conseguenze dell’articolo censurato. “Nel novembre 2002, dopo che la CIA apprese che un importante quotidiano americano sapeva che Abu Zubayda era nel paese [censurato], alti funzionari della CIA, così come il vicepresidente Cheney, hanno esortato il giornale a non pubblicare le informazioni”, afferma il rapporto del 2014. “Mentre il giornale statunitense non ha rivelato il paese [censurato] come la sede di Abu Zubaydah, il fatto che avesse le informazioni, combinate con il precedente interesse dei media, è risultato nella decisione di chiudere il Detention Site Green”
Nel 2002 stavo iniziando a scontrarmi con gli editori, riguardo la nostra copertura delle affermazioni dell’amministrazione Bush sull’intelligence prebellica in Iraq. Le mie storie che sollevavano interrogativi sull’intelligence, in particolare le affermazioni dell’amministrazione di un legame tra l’Iraq e Al Qaeda, venivano tagliate, censurate o tenute del tutto fuori dal giornale.
Una delle poche storie che sono riuscito a piazzare in prima pagina ha messo in dubbio i rapporti secondo cui un ufficiale dell’intelligence irachena si sarebbe incontrato con il terrorista dell’11 settembre Mohamed Atta a Praga, prima degli attacchi a New York e Washington. Ma Doug Frantz, all’epoca direttore delle inchieste a New York, sentiva che doveva portarlo di soppiatto fuori dalla prima pagina. “Data l’atmosfera tra i redattori anziani del The Times, ero preoccupato che la storia non sarebbe andata a pagina 1 in un giorno in cui tutti erano riuniti attorno al tavolo” mi scrisse Frantz in una email. “Così ho deciso che era troppo importante da mettere nelle pagine interne e mi sono offerto di metterlo in prima pagina la domenica, un giorno in cui i redattori anziani spesso non sono coinvolti nella discussione”.
Si credeva che l’allora editore capo Howell Raines preferisse storie favorevoli alla guerra in Iraq. Ma oggi Raines dice che non era a favore della guerra, e che non ha sollevato obiezioni sul fatto di inserire il mio articolo in prima pagina. “Non ho mai detto a nessuno del Times che volevo articoli a favore della guerra”, mi ha scritto in una email.
Nel frattempo Judy Miller, una giornalista di New York che aveva fonti ai più alti livelli dell’amministrazione Bush, stava scrivendo diversi articoli che sembravano documentare l’esistenza delle armi di distruzione di massa irachene. Le sue storie stavano aiutando a stabilire l’agenda politica a Washington.
Miller ed io eravamo amici – in effetti, ero probabilmente uno dei suoi migliori amici nell’ufficio di Washington all’epoca. Nell’anno precedente l’11 settembre, Miller ha lavorato a una serie notevole di storie su Al Qaeda. Nei mesi successivi all’11 settembre, sia lei che io abbiamo cercato di documentare il ruolo di Al Qaeda negli attacchi e la risposta anti-terrorismo degli Stati Uniti. Eravamo entrambi parte di una squadra che ha vinto il Premio Pulitzer 2002 per la copertura del terrorismo e dell’11 settembre.
Ma nei mesi che precedettero l’invasione dell’Iraq del marzo 2003, mentre Miller e altri giornalisti del Times stavano producendo una serie di grandi storie che facevano rizzare i capelli ai redattori, mi sentivo frustrato dal fatto che così poche delle mie fonti nella comunità dell’intelligence fossero disposte a parlarmi su quello che pensavano del caso di guerra dell’amministrazione Bush. Continuavo a sentire lamentele sul fatto che la Casa Bianca stesse facendo pressione sugli analisti della CIA per consegnare rapporti di intelligence che seguissero la linea del partito sull’Iraq. Ma quando ho premuto per ottenere informazioni, pochi erano disposti a fornire dettagli. Gli intermediari a volte mi dicevano che stavano ricevendo richieste angoscianti dagli analisti della CIA, ma quando ho chiesto loro di dirmi maggiori dettagli, hanno rifiutato.
Dopo settimane di rapporti tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003, sono stato in grado di ottenere materiale sufficiente per iniziare a scrivere storie che rivelassero come gli analisti dell’intelligence fossero scettici sulle prove dell’amministrazione Bush per andare in guerra; in particolare le affermazioni dell’amministrazione secondo le quali esistevano legami tra il regime di Saddam e Al Qaeda. Ma dopo aver scritto la prima storia, è stagnata nel sistema informatico del Times per giorni, poi settimane, inedita. Ho chiesto a diversi redattori quando sarebbe stata pubblicata, ma nessuno lo sapeva.
Alla fine, la storia uscì, ma era tagliata e sepolta in profondità nel giornale. Ne ho scritto un’altra, e la stessa cosa è successa. Ho provato a scrivere di più, ma poi ho capito il messaggio. Avevo capito che il Times queste storie non le voleva.
Ciò che mi ha fatto arrabbiare di più è stato che, mentre stavano censurando i miei articoli scettici verso la guerra in Iraq, i redattori non solo stavano dando grande risalto ai racconti che asserivano che l’Iraq avesse armi di distruzione di massa, ma chiedevano anche che io aiutassi a confrontare storie di altre pubblicazioni sui presunti programmi di armi di distruzione di massa dell’Iraq.
Ero così stufo di tutto quello che, quando il Washington Post riferì che l’Iraq aveva consegnato gas nervino ai terroristi, mi sono rifiutato di cercare di fare combaciare la storia. Un editore di medio livello dell’ufficio di Washington mi urlò contro, per il mio rifiuto. Venne alla mia scrivania con una mazza da golf, mentre mi rimproverava dopo che gli avevo detto che la storia era una cazzata e non l’avrei mai rilanciata.
Come piccola protesta, misi un cartello sulla mia scrivania che diceva “Tu dammi le foto, io ti do la guerra”. Era la frase che l’editore del New York Journal William Randolph Hearst disse a Frederic Remington, da lui inviato a Cuba per documentare la “crisi” nell’isola prima della guerra spagnola-americana. Non credo che i miei editori abbiano colto il riferimento.
(da The Intercept – traduzione di Federico Bezzi)