Appropriazione culturale e scontri etnici nella “società meticcia”

Quale reazione susciterebbe in voi, italiani e presumibilmente bianchi, se veniste messi alla gogna per praticare yoga non essendo indiani; o se vi dicessero che non potete farvi un tatuaggio un po’ etnico, in quanto “offensivo”; o, estremizzando, che non potete indossare nulla che sia, pur lontanamente, originario di un’altra cultura? Non è un esercizio di fantasia, né la trama di un improbabile sequel de “Il mondo nuovo” di Huxley. Sono le obiezioni sollevate, nel mondo anglosassone, dai sostenitori della “appropriazione culturale”.

L’approfondimento di questo tema è materia praticamente inedita in Italia; cercando sul web, si contano pochissimi articoli a riguardo. Pare che quella della “appropriazione culturale” sia una questione riguardante principalmente gli Stati Uniti e in generale i paesi dal passato coloniale e schiavistico. Quale interesse potrebbe dunque riscuotere da noi?

Molto brevemente, i segnali provenienti da oltreoceano presto o tardi finiscono per raggiungere periferia dell’impero: il caso del Maggio Fiorentino ne è un perfetto esempio, di come cioè si stia tentando di piegare i prodotti del passato alle esigenze dell’attuale Zeitgeist “politicamente corretto”.

Nonostante alla maldestra operazione di “pulizia” sia seguita sui social una sonora pernacchia, dimostrando che in Italia esiste una certa gelosia conservatrice del proprio passato, è necessario prestarvi attenzione. Tanto più se il tema ha raggiunto le sedi istituzionali attraverso il WIPO, l’agenzia dell’ONU della proprietà intellettuale.

“RUBARE” UNA CULTURA?

Quando un utente di Tumblr postò la foto di sua figlia in abiti tradizionali giapponesi, riprendendo la celebre cerimonia del tè, probabilmente non immaginava di scatenare un putiferio di accuse di “mancanza di rispetto” e di “razzismo. Impensabile qualcosa del genere da noi, pensando a quanti da piccoli a Carnevale hanno indossato un travestimento “etnico”.

Cos’è questa “appropriazione culturale”? Sarebbe, in poche parole, l’adozione, da parte di una “cultura dominante”, di simboli di una “cultura minoritaria”, in un contesto quindi di imparità tra le due culture. Essendo questi simboli privati del loro significato, la cultura “minoritaria” si troverebbe così spogliata della sua identità, o ridotta a una semplice caricatura.

Il concetto è emerso negli ambienti accademici negli anni ’70 e ’80 come parte della critica universitaria al colonialismo, acquisendo spessore a metà degli anni ’90 nell’ambito della sociologia. Più precisamente, come è stato definito dalla Fordham University, l’appropriazione culturale sarebbe “un furto di proprietà intellettuale”.

Non è difficile pensare agli esempi più banali: un tatuaggio tribale, per un occidentale è moda; per la specifica tribù, può avere un significato sacro. Il taglio “alla mohicana”, adottato da taluni calciatori famosi, per i mohicani veri e propri indica un alto membro della tribù. E si potrebbe continuare all’infinito.

Il fatto che una cultura raccolga elementi di un’altra (costumi, parole, stili artistici, religioni) e li “rielabori” non è esattamente una novità: già gli antichi egizi presero dagli ebrei la pratica della circoncisione, per scopi talvolta religiosi e il più delle volte puramente estetici. Al tempo stesso alcune placche in avorio risalenti ai fenici, gli avori di Nimrud, mostrano evidenti elementi stilistici egiziani – inclusi geroglifici messi letteralmente a casaccio. E come non pensare agli antichi Romani, che dalla conquista della Grecia si “appropriarono” della lingua, dell’arte e dell’intero pantheon? Due popoli conviventi, se non talvolta in conflitto, finiscono inevitabilmente per trarre ispirazione l’uno dall’altro, in un processo che in antropologia viene definito “acculturazione”.

Tornando agli odierni Stati Uniti, spostandoci nell’ambito musicale odierno e nel fitto bosco delle sottoculture, gli elementi del blues e del jazz (musica “nera”, quindi di minoranza) hanno avuto una enorme influenza sulla nascita e lo sviluppo di generi come il rock’n’roll; a sua volta, la musica dance ha tratto enorme linfa dalla sottocultura di un’altra minoranza, quella gay. Influenze, ispirazioni e talvolta veri e propri “furti” – come il caso dei rapper bianchi, spregiativamente definiti “wiggas” – hanno contribuito spesso allo sdoganamento di culture prima marginali: spiega bene un articolo del New York Times come l’influenza di Elvis Presley contribuì, assieme alle lotte per i diritti civili, all’avvicinamento delle comunità bianche e nere d’America.

E proprio le sottoculture mostrano una enorme capacità di permeazione del tessuto sociale, non solo all’interno dello stesso contesto nazionale, ma attraverso interi continenti: in Occidente è forte l’influenza della cultura pop giapponese, dalla musica alle arti visive, mentre in Indonesia è recentemente nato un forte movimento punk. E se l’Africa in Europa riscuote sempre il suo fascino, dal cibo ai balli tradizionali, nel Botswana esistono giovani ispirati all’heavy metal anni ’80.

La cultura, in definitiva, si può “rubare”? Come ben spiega un articolo sul Daily Beast, intitolato appunto “You Can’t ‘Steal’ a Culture: In Defense of Cultural Appropriation”, no: “Questo è ciò che fanno gli esseri umani. La stessa facoltà del linguaggio è, in larga misura, una questione di imitazione. L’idea che quando imitiamo qualcosa cerchiamo di sostituirla, piuttosto che unirla alla nostra, è debole”.

LA POLIZIA CULTURALE

Ma poiché esiste sempre qualcuno più a sinistra del buonsenso, il discorso della vera o presunta appropriazione culturale ha iniziato a colpire indiscriminatamente e per i motivi più disparati. In particolar modo, ha preso di mira il mondo della cultura e dello spettacolo.

Il “vaso di Pandora” è stato aperto nel settembre 2016, quando la scrittrice Lionel Shriver si è difesa dall’accusa di avere “offeso le minoranze” per avere usato un personaggio afroamericano in un suo libro, sostenendo che uno scrittore ha il diritto di scrivere da qualunque punto di vista, incluso quello di personaggi di diverso background culturale.

Ma le derive paranoiche sono andate ben oltre a ciò: dalle mense universitarie che offrono il sushi nella mensa, con le proteste guidate dalla famigerata Lena Dunham; fino a due studenti che all’Università di Bowdoin fanno una festa in stile messicano – con tanto di scuse dell’università per “tutti gli studenti offesi”. Un comico che cucina una paella in una padella di vetro e uno studente bianco aggredito perché portava i dreadlocks. Infine, bambini vestiti da indiani per Halloween e discutibili accessori prodotti dalle case di moda. Nemmeno i VIP si sono salvati da questa sorta di inquisizione, per l’uso di vestiti, ornamenti o balli etnici. E, in un caso, per una emoticon “fuori luogo”.

“Per la nuova polizia culturale, tutto è appropriazione”: così ha scritto Cathy Young sul Washington Post. “L’appropriazione non è un crimine. È un modo per ridare vita alle culture. Le persone hanno preso in prestito, adottato, preso, infiltrato le culture dalla notte dei tempi. Quando attacchiamo le persone perché escono dalle loro esperienze culturali, inibiamo la loro capacità di sviluppare empatia e comprensione per le altre culture”.

D’altra parte, se gli artisti rimanessero aderenti esclusivamente alla propria cultura non avremmo, come ben evidenzia un articolo de Il Foglio, né i dipinti di Picasso e Matisse ispirati all’Africa, né le opere orientalistiche di Puccini come Turandot e Madama Butterfly. Eppure sul Time si è dato spazio a una lunga polemica di “appropriazione culturale” delle “movenze” delle donne nere da parte dei gay bianchi.

Pensando più in grande, se ogni etnia del pianeta si fosse rifugiata nella propria esclusività, evitando contatti con l’esterno per timore di venire “derubato” della propria cultura, l’intera umanità non avrebbe fatto un passo in avanti. Perfino il viaggio sulla Luna fu fatto grazie a una “appropriazione culturale”, la conoscenza missilistica del tedesco Wernher von Braun.

Quanto è ipocrita, per gli stessi fanatici della globalizzazione e della “società meticcia”, farsi ora portavoce dell’apartheid culturale o, peggio ancora, sottoculturale? Questo non evidenzia solo come negli Stati Uniti, ma presto anche in Europa, l’identità razziale abbia iniziato a coincidere con l’identità politica -grazie anche alla propaganda della sinistra neoliberista, che si è mossa proprio in questa direzione- ma evidenzia soprattutto il limite stesso del tanto evocato multiculturalismo: mescolanza di genti dai costumi diversi mantenute in pace forzata, pronta a trovare il primo punto di scontro non appena sorge la possibilità, senza rispetto per la diversità e l’identità. Tutto l’opposto di ciò una nazione unita e culturalmente forte dovrebbe ottenere.

Insomma, gli stessi che vogliono venderci l’idea del mondo unito e meticcio si scannano tra loro perché un bianco fa yoga e un gay simula una donna nera.

La migliore risposta al nuovo psicoreato, tuttavia, l’ha offerta proprio un utente di Tumblr in riferimento al post della bambina vestita da geisha: “Io sono un giapponese, scrivo proprio dal Giappone. Alla grande maggioranza dei giapponesi piace che la propria cultura sia condivisa. L’ottanta per cento della cultura giapponese proviene da altri paesi. L’unica ragione per cui questa cosa vi infastidisce è perché la bambina è bianca. Le uniche persone convinte che le culture non debbano essere condivise sono i razzisti come voi”. Colpiti e affondati.

(di Federico Bezzi)