I segreti della “Guerra al Terrore”, parte III: La finta bomba iraniana
James Risen è il giornalista investigativo americano che, dieci anni prima di Edward Snowden, cercò di rivelare gli abusi della Nsa, ma che fu fermato dal suo stesso giornale: il New York Times, che nel 2004 insabbiò la storia per oltre un anno, su pressione della Casa Bianca. Su Oltre la Linea, pubblicato a puntate, l’articolo completo pubblicato su The Intercept che svela i retroscena della “War on Terror” di Bush e le pressioni delle agenzie di Intelligence sulla stampa statunitense.
Qui la seconda parte. Qui la quarta parte.
Proprio mentre l’invasione dell’Iraq stava per iniziare, stavo lavorando a una storia molto intrigante, che mi aiutò a staccare la mente dalle mie battaglie con il Times riguardo i miei articoli sull’intelligence prebellica.
Devo ammetterlo, era strano dovere fare un’intervista nudo, ma questo era ciò che la mia fonte chiedeva.
Nel marzo 2003 volai a Dubai per intervistare un uomo molto nervoso. C’erano volute settimane di negoziazioni, e una serie infinita di intermediari, per combinare il nostro incontro. Ci mettemmo d’accordo per incontrarci in un hotel di lusso a Dubai. Poco prima di incontrarci, tuttavia, la mia fonte ci impose una nuova richiesta. Avremmo dovuto condurre l’intervista nella sauna dell’hotel, nudi. Voleva essere sicuro che non lo stessi registrando. La cosa rese anche impossibile, per me, prendere appunti fino alla fine del nostro incontro.
Ma ne valse la pena. Mi raccontò di come il Qatar avesse dato asilo a Khalid Shaikh Mohammed negli anni ’90, quando era ricercato per avere architettato un attentato dinamitario sulle linee aeree americani. Gli ufficiali del Qatar avevano dato a KSM un impiego governativo, poi a quanto pare lo avevano avvisato che la CIA e l’FBI erano sulle sue tracce, permettendogli di scappare in Afghanistan, dove si unì alle forze di Bin Laden e divenne la mente dell’attentato dell’11 settembre. Fui in grado di trovare conferme alla storia; la quale era molto significativa, visto che il Qatar ospitava il quartier generale del comando militare incaricato di guidare l’invasione dell’Iraq.
Dopo che la storia fu pubblicata, mi sentii revitalizzato.
Quella primavera, proprio mentre l’invasione dell’Iraq stava iniziando, chiamai la CIA per chiedere un commento su una storia che avevo scoperto: una folle operazione della CIA per fornire all’Iran le istruzioni utili alla costruzione di una bomba atomica. L’idea era che la CIA avrebbe fornito agli iraniani delle istruzioni sbagliate, e Teheran le avrebbe usate per costruire una bomba che poi si sarebbe rivelata un petardo.
C’era però un problema nell’esecuzione del piano. La CIA aveva ottenuto le cianografie della bomba nucleare da un disertore russo, e poi gli scienziati americani le avevano modificate inserendovi degli errori. La CIA aveva in seguito chiesto a un altro russo di approcciare gli iraniani. Doveva fingere di volere vendere i documenti al migliore offerente.
Ma i difetti presenti nel progetto erano troppo evidenti. Il russo che avrebbe dovuto dare le cianografie agli iraniani temeva che avrebbero riconosciuto subito gli errori; e, se così fosse stato, sarebbe finito nei guai. Per proteggersi, quando avrebbe dovuto incontrare gli iraniani a Vienna, incluse una lettera che avvertiva che il progetto aveva dei problemi. Così gli iraniani ricevettero il progetto per la bomba nucleare, e seppero anche che avrebbero dovuto cercare dei difetti di progettazione.
Diversi ufficiali della CIA ritennero che l’operazione fosse stata condotta male, o che almeno avesse fallito nell’ottenere il proprio scopo. Nel marzo 2003 confermai la storia attraverso diverse fonti, scrissi una bozza e chiamai l’ufficio affari pubblici della CIA per un commento. Invece di rispondere a me, la Casa Bianca chiamò immediatamente la responsabile dell’ufficio di Washington, Jill Abramson, e chiese un incontro.
Il giorno dopo, la Abramson e io eravamo nell’ala ovest della Casa Bianca per incontrarci con la Consigliera della Sicurezza Nazionale, Condoleeza Rice. Nel suo ufficio, in fondo al corridoio dove si trovava l’Ufficio Ovale, ci sedemmo davanti alla Rice e George Tenet, direttore della CIA, e due loro assistenti.
La Rice mi guardò dritto negli occhi. Avevo ricevuto informazioni così sensibili che ero praticamente obbligato a dimenticarmi della storia, distruggere i miei appunti e non farne mai più parola con nessuno: così mi disse. Disse anche alla Abramson che il New York Times non avrebbe mai dovuto pubblicare l’articolo.
Cercai di cambiare le cose. Chiesi a Tenet alcune cose sul programma iraniano, e ottenni da lui la conferma della storia, più alcuni dettagli che non conoscevo. L’unico punto su cui lui non era d’accordo era sul fatto che l’operazione fosse stata gestita male. Rice sostenne che l’operazione fosse un’alternativa all’invasione di larga scala dell’Iran, come la guerra che Bush aveva appena lanciato in Iraq. “Voi ci criticate per essere entrati in guerra per le armi di distruzione di massa”, ricordo che ci disse, “Ecco, questo è ciò che invece possiamo fare”.
Anni dopo, quando la Rice testimoniò nel processo Sterling, tra le prove fu inserita una copia degli appunti che lei aveva preparato per il nostro incontro, nonostante non ricordi che avesse mai detto molte delle cose che vi erano scritte.
Abramson disse alla Rice e a Tenent che la decisione di pubblicare o meno la storia toccava al caporedattore del Times, Howell Raines. Dopo l’incontro, Abramson e io ci siamo fermati a pranzo. Eravamo entrambi sconvolti dal terzo grado che avevamo appena sopportato. Però riconobbi che avevo avuto una conferma di alto livello della mia storia – meglio di quanto potessi mai immaginare.
Poco dopo che io e la Abramson ci incontrammo con la Rice e Tenent, scoppiò lo scandalo Jayson Blair [un giornalista del New York Times che si scoprì avere plagiato o inventato molte delle sue inchieste più celebri, ndt], costringendo Raines a una dura battaglia per salvare il proprio posto di lavoro. Blair probabilmente fu la causa immediata della crisi, ma tra lo staff fu la scintilla che animò il risentimento contro Raines per le sue scelte dirigenziali.
Abramson ricorda che, dopo il nostro incontro con la Rice, portò la storia dell’Iran all’attenzione di Raines e dell’allora editore Gerald Boyd. “Mi diedero entrambi un no secco” riguardo la pubblicazione, mi ha scritto recentemente la Abramson, aggiungendo di avere detto a Raines e Boyd che la Rice avrebbe discusso la storia con loro attraverso una linea telefonica sicura; ma nessuno di loro se la sentì di fare quel passo. Raines, scrivendomi via mail, disse: “Non ricordo di essere stato informato del tuo incontro con Rice e Tenent, né di essere stato coinvolto nella tua storia in nessun modo”. Boyd è morto nel 2006.
Raines lasciò il giornale nel giugno 2003. Joe Lelyveld, ex editore esecutivo in pensione, occupò al suo posto ad interim. Parlai con lui al telefono per l’articolo sull’Iran, ma mi disse di non avere tempo per occuparsene.
Quando Bill Keller fu nominato caporedattore nell’estate del 2003, si disse disponibile a discutere della storia con me e la Abramson. La Abramson, nel frattempo, era stata promossa, divenendo il braccio destro di Keller. Dopo che gliene parlai, decise di non pubblicarla. Cercai di convincerlo l’anno successivo, ma fu del tutto inutile. La vicenda della storia della bomba iraniana mi lasciò davvero depresso. Iniziai a pensare di scrivere un libro per documentare la guerra al terrore in una maniera che al Times per me era impossibile.
L’amministrazione Bush stava convincendo sempre più la stampa a censurare articoli sulla sicurezza nazionale, ma il governo non aveva ancora lanciato una campagna aggressiva per dare la caccia agli informatori e prendere di mira i giornalisti. Tutto cambiò con il caso di Valerie Plame.
Nel dicembre 2003, il dipartimento di giustizia incaricò Patrick Fitzgerald, allora procuratore a Chicago, come consigliere speciale per indagare sulle accuse secondo cui i funzionari della Casa Bianca di Bush avevano divulgato illegalmente l’identità segreta di Plame come ufficiale della CIA. Si diceva che la Casa Bianca l’aveva venduta alla stampa per punire suo marito, l’ex diplomatico Joseph Wilson, critico verso la guerra in Iraq.
Senza pensare alle conseguenze a lungo termine, molti nel mondo della stampa hanno esaltato Fitzgerald, esortandolo a stare dietro ai funzionari dell’amministrazione Bush per scoprire chi fosse la fonte della fuga di notizie. I liberal anti-Bush videro il caso Plame come una lotta per procura contro la guerra in Iraq, invece di una potenziale minaccia alla libertà di stampa. Fitzgerald ha iniziato a citare in giudizio giornalisti in tutta Washington, chiedendogli di testimoniare davanti a un giudice.
I liberal quasi non si sono lamentati, quando Fitzgerald pressava un giornalista dopo l’altro per ottenere informazioni. Solo Judy Miller preferì andare in carcere invece di collaborare. Alla fine ha testimoniato dopo aver ricevuto il permesso dalla sua fonte, I. Lewis “Scooter” Libby, un assistente di alto livello del vicepresidente Dick Cheney.
Fitzgerald divenne famoso come un pubblico ministero severo e privo di scrupoli, e il fatto che avesse perseguito tutto il mondo giornalistico di Washington non danneggiò la sua reputazione. Ha continuato a operare come partner in uno dei principali studi legali americani.
Il caso Plame alla fine terminò, ma aveva creato un pericoloso precedente. Fitzgerald aveva convocato tutti i principali giornalisti in tribunale ed era diventata la più grande stella del Dipartimento di Giustizia. Aveva demolito i vincoli politici, sociali e legali che in precedenza avevano reso i funzionari del governo riluttanti ad inseguire i giornalisti e le loro fonti. Divenne un modello per i pubblici ministeri, che videro la possibilità di arrivare al vertice del Dipartimento di giustizia inseguendo i giornalisti e le loro fonti.
I funzionari della Casa Bianca, nel frattempo, videro che non ci fu tanto scandalo politico nel prendere di mira i giornalisti e condurre inchieste aggressive, come si aspettavano. La decennale intesa informale tra il governo e la stampa era morta.
(da The Intercept – traduzione di Federico Bezzi)