Armenia: una nuova rivoluzione colorata in corso?

Le dimissioni di Serzh Sargsyan a un a settimana dalla sua nomina a Primo Ministro possono essere viste come la vittoria dell’opposizione armena che, scesa in piazza da ormai una decina di giorni proprio in opposizione a questa nomina, è riuscita a ottenere la rinuncia dell’ex presidente dopo le negoziazioni avvenute con il leader dell’opposizione Nikol Pashinian.

Questa “rivoluzione di velluto”, come è stata battezzata dai manifestanti stessi, ha ricevuto, fra gli altri, il supporto di Mikhail Saakashvili, il camaleontico ex presidente georgiano protagonista della Rivoluzione delle Rose del 2003 e della fallimentare guerra con la Russia del 2008 iniziata per riportare le repubbliche secessioniste di Abcasia ed Ossezia del Sud sotto il controllo di Tbilisi, e risultata nel riconoscimento dell’indipendenza delle due repubbliche da parte della Federazione Russa, che le supporta militarmente con uomini sui loro territori. Saakashvili, vale la pena ricordarlo, ha lasciato la Georgia dopo la sua sconfitta nelle elezioni presidenziali del 2013, a causa dei diversi reati di cui è accusato, e ha supportato EuroMaidan in Ucraina. Nel 2015 è stato nominato governatore della regione di Odessa, a maggioranza russofona, direttamente dal presidente Poroshenko, per poi entrare in contrasto con quest’ultimo nel 2017 a causa della corruzione dilagante nel Paese, supportando per questo una nuova possibile rivoluzione colorata in Ucraina. Dall’altro lato, come anche l’analista geopolitico Andrew Korybko ha fatto notare, una protesta voluta da un gruppo d’opposizione che raccoglie solamente il 7-8% dei consensi non è necessariamente un trionfo della democrazia.

Serzh Sargsgyan, prima di essere nominato Primo Ministro, è stato Presidente della Repubblica d’Armenia dall’aprile del 2008 all’aprile del 2018 senza soluzione di causa. Di recente, è stata approvata in Armenia una riforma costituzionale che ha previsto il passaggio da una forma di governo semi-presidenziale (sul modello francese e russo, dunque) ad una forma di governo parlamentare (come in Italia). Sebbene nel dicembre del 2015 un referendum abbia sancito l’approvazione del mandato per la riforma, anche a quei tempi l’opposizione scese in piazza per protestare, indicando come vero fine della riforma la permanenza al potere di Sargsyan anche dopo la fine del suo mandato presidenziale, proprio attraverso la sua nomina a Primo Ministro, scavalcando dunque il divieto di potersi candidare per un terzo mandato. Il nuovo presidente Armen Sarkisian, privo di affiliazione partitica, è diventato Presidente della Repubblica lo scorso marzo dopo la nomina da parte del Partito Repubblicano (il partito di Sargsyan, al potere da circa un ventennio) e la Federazione Rivoluzionaria Armena (presente anche in Nagorno-Karabakh e Libano) con l’approvazione di 90 su 105 deputati dell’Assemblea Nazionale.

Dopo il passo indietro dell’ex sindaco di Yerevan, Karen Karapetyan, dalla carica di Primo Ministro la scorsa settimana, il presidente Sarkisian, col supporto del Partito Repubblicano, ha nominato l’uomo forte d’Armenia Sargsyan, criticato fra le altre cose per la diffusa corruzione e l’economia stagnante del Paese, come primo ministro, nonostante le proteste fossero iniziate già nei giorni precedenti alla sua nomina al fine di esprimere il dissenso della piazza verso quello che era un gioco di palazzo più che prevedibile. Il 23 aprile, dopo una negoziazione fra il governo e l’opposizione, Sargsyan si è dimesso da Primo Ministro, il governo è stato sciolto e la carica di Primo Ministro ad interim è rivestita dall’ex primo ministro Karapetyan.

Le proteste, come accennato, sono state guidate da Nikol Pashinyan, membro dell’Assemblea Nazionale per il partito “Contratto Civile” all’interno della piattaforma “Yelk”, alleanza fra alcuni partiti d’ispirazione liberale, a volte definiti populisti, d’orientamento pro-occidentale ed anti-eurasiatista. In particolare, l’alleanza ha in passato criticato la scelta di Sargsyan di aderire all’Unione Economia Eurasiatica, che avrebbe portato benefici bassi o nulli all’economia armena, mentre supporta un accordo di associazione con l’Unione Europea come quelli adottati da Georgia, Moldavia e Ucraina. E’ chiaro dunque che i prossimi giorni saranno cruciali per capire anche il valore geopolitico di queste proteste: solo con un riorientamento della politica estera armena potremo dire di essere di fronte ad una rivoluzione colorata a tutto tondo. La Russia rimane per l’Armenia un partner fondamentale, tuttavia Yerevan ha spesso espresso interesse verso l’integrazione europea, come dimostrato dal recente Accordo di Paternariato siglato con Bruxelles.

(di Elia Bescotti)