Il discorso completo di Augusto Minzolini al Senato – ESCLUSIVA

Alla fine di questo calvario, una premessa mi è d’obbligo. Io sono convinto che la battaglia che ho intrapreso, vada al di là della mia persona. Sono persuaso che certe incongruenze, contraddizioni, meccanismi infernali, che spesso emergono nel nostro sistema giudiziario, rappresentino l’occasione per fare il punto sulla condizione della  giustizia e della democrazia nel nostro paese. Ma queste battaglie, proprio per essere efficaci,  debbono essere sterilizzate da ogni interesse personale, debbono essere solo battaglie di principio. Proprio per questo dico fin d’ora che, qualunque sia l’esito del voto, un attimo dopo rassegnerò le dimissioni da senatore. Dopo, però, non prima: perché voglio, appunto, che il Senato si esprima su un caso che io considero, con tutto il rispetto che posso avere per la magistratura, una grande ingiustizia. Non per nulla, io continuerò a combattere la mia battaglia su questa vicenda in tutte le sedi. In Italia e in Europa.

Io penso di essere vittima di una vicenda kafkiana, che dimostra come, nel nostro Paese, a volte si assista ad interpretazioni del diritto, più prossime al perverso arbitrio della Colonna Infame, che non a Cesare Beccaria. Storie che ti fanno perdere fiducia nella giustizia. E te la rappresentano come nemica del buonsenso e amica della parzialità.

Perché dico questo? Perché la vicenda giudiziaria in cui sono stato coinvolto ha dell’incredibile. Io arrivo in Rai nel giugno del 2009, dopo aver lavorato 30 anni in aziende private: l’agenzia Asca; Panorama; la Stampa. Accettai uno stipendio inferiore a quello del mio predecessore, Gianni Riotta, ma posi come condizione quella di poter continuare la mia collaborazione con Panorama: volevo dire la mia, al di fuori del Tg che avrei diretto. Prima mi fu detto di sì, poi il Presidente della Rai di allora, Paolo Galimberti, si oppose. Mi mandò una e-mail in cui mi diceva che “era eticamente (oltre che contrattualmente) incompatibile che io continuassi”. Ricordatevi queste parole. A quel punto – indispettito dal rifiuto – io posi la questione della carta di credito. Dissi all’allora direttore generale Masi che volevo una carta di credito, esattamente come quella di cui disponevo a La Stampa, da inviato speciale. Ripeto da inviato speciale non da direttore: stesso budget; stesse regole, tra le quali quella di non dover indicare i nominativi delle persone incontrate o invitate (per ovvie ragioni di riservatezza delle mie fonti).

Durante il processo, l’allora amministratore delegato della Stampa, Angelo Capetti, inviò una lettera in cui confermò che le condizioni che avevo al giornale erano proprio queste. La trattativa si chiuse. Per 18 mesi andò avanti tutto come previsto: la mia segretaria mandava ogni mese, ripeto ogni mese, le note spese con le ricevute alla direzione finanziaria della Rai, che dava l’ok al pagamento. A giugno del 2010 Masi inviò una circolare, in cui ricordava la direttiva dell’ex-direttore generale  Cattaneo del 2005 , nella quale era previsto che le spese prive dei nomi dei beneficiari, dovessero essere sottoposte all’approvazione del direttore generale: avendo io l’accordo di cui vi ho parlato, pensavo di esserne dispensato. E, comunque, continuò a non esserci nessuna contestazione sulle mie note spese. Senza contare, dato di non poco conto, che mesi dopo, nel processo a mio carico, il direttore del tg1 dell’epoca Cattaneo, cioè Clemente Mimun, testimoniò, insieme al suo vicedirettore, che era prassi consolidata in azienda, che il direttore del Tg1 non mettesse il nome dei propri ospiti per una questione di riservatezza: una testimonianza che non è mai stata contestata da nessuno.

Ma torniamo a quei giorni. Nessuno mi disse niente di questo problema fino a quando uno dei consiglieri di amministrazione, Rizzo Nervo, non pose la questione al direttore generale Masi. Il quale non avendo le idee chiare in testa – in Rai capita spesso – farfugliò e si contraddisse. In due lettere diede due risposte diverse: nella prima, indirizzata al consigliere Rizzo Nervo, definì la carta un “benefit compensativo” in cambio dell'”esclusiva”; nella seconda, rivolta al sottoscritto, cambiò la natura della carta in una sorta di “facility”, sostenendo che tra me e l’azienda fosse insorta un’incomprensione di natura amministrativa e, riconoscendo la mia buona fede, mi chiese di reintegrare le somme. Vorrei sottolineare che  – a differenza di altri casi del genere – la tipologia delle spese riguardava solo pranzi o cene con due, tre persone.

Non vi nascondo il mio disappunto per il voltafaccia del vertice dell’azienda. Tra l’altro scrissi al direttore generale: “di questo corto circuito procedurale, l’Azienda avrebbe potuto avvertirmi prima e non aspettare 18 mesi. E una semplice segnalazione avrebbe risolto sul nascere questa incomprensione”.

Sia pure indignato, decisi, senza batter ciglio, di ridare indietro all’azienda tutta la somma in questione, cioè esattamente quello che l’azienda richiedeva indietro. Restituii la somma, e comunicai all’azienda che mi sarei rivolto al giudice del lavoro. Nel contempo, in un’altra lettera, venuta meno la condizione della carta di credito, chiesi di riprendere la collaborazione con Panorama. Una richiesta che venne subito accettata: per cui la collaborazione ritenuta un anno e mezzo prima dal Presidente della Rai, “eticamente e contrattualmente incompatibile”, diventò tranquillamente lecita. Misteri della Rai, ma anche la conferma, indiretta, che la carta era “un benefit compensativo” dell’”esclusiva”.

Restituii le somme, quindi, ancor prima che ricevessi l’avviso di garanzia per peculato. Lo feci solo per una questione di orgoglio: essere accusato da qualcuno, sia pure in malafede, di aver sperperato soldi pubblici la reputavo, e la reputo, un’offesa. Tant’è che diedi indietro tutta la somma, senza questionare, per dimostrare che nell’esercizio delle mie funzioni di direttore, la Rai non aveva pagato né un caffè a me, né a un mio ospite, ma che era, semmai, avvenuto l’esatto contrario.

Peccando d’ingenuità, ero convinto che la vicenda si fosse chiusa lì. Ma nel frattempo un esposto presentato dall’allora on. Di Pietro, aveva messo in moto la procura di Roma. Dalle indagini non emerse una prova, un episodio, una testimonianza, da cui si potesse dedurre che fossi andato a cena per fatti miei privati. Anzi, il 26 aprile del 2011 il consiglio dell’ordine dei giornalisti archiviò la vicenda all’unanimità. Stessa cosa fece la Corte dei Conti, in data 6 dicembre 2011, ma due mesi prima il G.u.p. di Roma mi aveva rinviato a giudizio. La prima udienza del processo si svolse l’8 marzo del 2012. Il processo di primo grado durò poco più di un anno: furono sentiti decine di testimoni e esaminate una montagna di prove documentali. Il Pubblico Ministero cominciò la sua requisitoria, avvertendo il Tribunale, che non c’era una prova diretta che io avessi compiuto quell’illecito. Non c’era, per essere chiari, la cosiddetta “pistola fumante”. Per cui il processo si concluse con l’assoluzione. Pensai che il mio calvario fosse finito, invece, stava appena cominciando.

Mi limito alla cruda cronaca, perché nel mio caso è più efficace di ogni commento. Nell’anno che separa l’assoluzione di primo grado dalla condanna in secondo grado, avvengono 5 fatti. Primo) Sono eletto in Parlamento, per cui entro a far parte della categoria più vituperata del Paese, quella dei politici. Secondo) Il giudice del lavoro, forse il tribunale più esperto dei meccanismi di un’azienda giornalistica, obbliga la Rai a restituirmi i soldi che l’azienda mi aveva richiesto: fatto che ai miei occhi appare come la conferma definitiva della mia innocenza. Terzo) Polemizzo duramente con l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano: qualcuno non sarà d’accordo, ma la dialettica è il sale della politica. Quarto)Voto contro le riforme costituzionali, in dissenso con il mio gruppo parlamentare di appartenenza. Quinto) Denuncio alla corte di Strasburgo il Presidente del Senato per la conduzione dei lavori parlamentari sulla riforma costituzionale, troppo attenta – a mio avviso – alle esigenze del governo. Inutile dire che si trattava solo di polemiche politiche, in cui non c’era nulla di personale.

Alla fine di questo percorso, il 27 ottobre del 2014, ci fu il processo di appello. E lì, in quattro ore, dico quattro ore, senza riaprire l’istruttoria, assumere nuove prove, raccogliere nuove testimonianze o riascoltarmi, la sentenza di assoluzione viene ribaltata. Di più, il tribunale va oltre le richieste dei pubblici ministeri, sia in primo grado che in appello: se questi avevano chiesto due anni, il tribunale mi condanna a due anni e sei mesi. E all’interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo della pena . In sintesi, mi condanna al silenzio, perché non riconoscendomi neppure l’attenuante, quasi ovvia, della restituzione dei soldi addirittura prima dell’inizio del procedimento penale, supera i due anni previsti per la condizionale e fa scattare l’istituto della decadenza contenuto nella legge Severino. Inoltre, con l’interdizione dai pubblici uffici, mi priva del diritto di voto e decreta, nei fatti, la sospensione dall’ordine dei giornalisti. Insomma, è una sentenza che mi consegna all’oblio. Resto esterrefatto. Mi colpiscono, soprattutto, due particolari della sentenza di condanna.

Primo) Il tribunale indica come elemento di colpevolezza, l’uso della carta di credito il giorno del mio compleanno, senza spiegare se in quel giorno io ne avessi fatto un uso privato e, principalmente, senza che tale elemento mi fosse mai stato contestato nel corso del processo: io in 35 anni di professione, e credo molti di voi come me, non ho mai preso una vacanza il giorno del mio compleanno, che per me è sempre stato un giorno di lavoro come un altro. Secondo) La sentenza non mi riconosce neppure l’attenuante della restituzione dei soldi che io, come ricorderete, ridiedi alla Rai addirittura prima di ricevere l’avviso di garanzia. Il ragionamento che adduce è, a parer mio, capzioso e illogico. La mia colpa sarebbe stata quella di non aver calcolato i danni. Ma come avrei potuto farlo? L’azienda all’epoca non me li chiese. E se lo avessi fatto per mio conto, una scelta del genere sarebbe stata interpretata come un’ammissione di colpa. Senza contare che, successivamente, come sapete, fui assolto in primo grado e il giudice del lavoro costrinse la Rai a ridarmi i soldi. E in ultimo, paradosso nel paradosso, ora che a seguito della condanna definitiva ho di nuovo ridato i soldi all’azienda, quest’ultima non mi ha chiesto i danni. C’è da restare allibiti per l’assenza di qualsiasi logica.

Resto sconvolto dalla sentenza. Ma penso che il tribunale abbia preso un granchio e, avendo fiducia nella magistratura, mi convinco che la Cassazione avrebbe modificato l’orientamento della Corte d’Appello. Almeno così sperai in quel frangente. Invece, un anno dopo, la Cassazione conferma la sentenza. Mi soffermo solo su un aspetto della decisione dell’Alta Corte. La VI sezione della Cassazione è la stessa che aveva annullato la sentenza di condanna del tribunale di appello di Genova contro l’ex-capo della Polizia, Gianni De Gennaro, sui fatti del G8, che aveva capovolto la sentenza di assoluzione in primo grado. Motivo? L’appello non aveva portato nuovi elementi probatori.

E, la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, prevede che una sentenza possa essere capovolta solo riaprendo l’istruttoria. Esattamente come era avvenuto a me: ma in Cassazione, nella stessa sezione, gli esiti per me sono stati diversi. Eppure, più volte in passato, l’Alta Corte aveva fatto proprio l’orientamento della Corte dei diritti dell’uomo. Senza contare che il 28 aprile scorso, cioè sei mesi dopo la mia condanna, una sentenza delle sezioni riunite della Cassazione, ha riaffermato di nuovo in termini estremamente solenni, che il capovolgimento di una sentenza di assoluzione, tra il primo e il secondo grado, possa avvenire solo riaprendo l’istruttoria.

Da quel momento non mi do pace. Comincio ad analizzare quanto è avvenuto, con lo stato d’animo di chi si sente tradito dalla giustizia. E scopro che nel tribunale di appello, quello che ha capovolto la sentenza di assoluzione di primo grado, c’era un giudice che è stato in politica per venti anni. Il giudice in questione, Giannicola Sinisi, ha, infatti, avuto una lunga carriera in politica nello schieramento avverso rispetto a quello in cui mi trovo io. E’ stato sindaco di Andria. Si è candidato alla presidenza della regione Puglia. E’ stato deputato. Sottosegretario al ministero dell’Interno nel primo governo Prodi: in quella compagine il ministro dell’interno era Napolitano. E, ancora, sottosegretario al ministero dell’Interno nel governo D’Alema. Poi senatore dal 2006 al 2008. E, dal 2008 al 2013, consigliere giuridico dell’ambasciata italiana in Usa: altra nomina politica, visto che dipende dal ministero di Grazia e Giustizia. Insomma, per gli anni trascorsi nelle istituzioni e stato 20 volte più politico di me. Questo è il giudice che mi ha condannato, capovolgendo una sentenza di assoluzione e, ancora, che ha aumentato di 6 mesi la pena richiesta per due volte dalla pubblica accusa, facendomi in questo modo incorrere nella legge Severino.

Beh, a me tutto questo sembra un’enormità: il Re è davvero nudo. In giunta qualcuno mi ha rimproverato di non aver ricusato quel giudice, ma io non lo sapevo: non sono un frequentatore abituale delle aule dei tribunali e anche i miei avvocati ignoravano il suo passato. Semmai c’è da riflettere su un dato: tre anni fa, quest’aula ha licenziato una legge che avrebbe impedito a quel giudice di far parte di quel Tribunale.

Un provvedimento che la Camera tarda ancora oggi ad approvare, malgrado tratti un argomento capitale per il funzionamento di ogni democrazia su cui, appena qualche settimana fa, dall’Europa ci è arrivato un nuovo monito. Il gruppo di Stati contro la corruzione, il coisiddetto GRECO, organo del consiglio d’Europa ha, infatti, approvato 12 raccomandazioni al nostro Paese, la prima delle quali chiede limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica. Vi si legge: ”È chiaro che la legislazione italiana contiene diverse lacune e contraddizioni a tale riguardo, che sollevano dubbi dal punto di vista della separazione dei poteri e della necessaria indipendenza e imparzialità dei giudici”. In questa logica l’organismo segnala “l’effetto negativo che qualsiasi presunta politicizzazione della professione, può avere sulla percezione che i cittadini hanno dell’indipendenza dell’intera magistratura”. Sembra scritto apposta per questa vicenda.

La verità è che i tempi cambiano. E non in meglio. Ad esempio, l’ex-senatore dc Lucio Toth, tornato in magistratura, si astenne dal partecipare al collegio che avrebbe dovuto giudicare Arnaldo Forlani, suo ex-segretario di partito, perché essendo amico e collega di partito, era convinto di non apparire imparziale. Un tatto istituzionale che appartiene, però, anche a molti dei tanto criticati, o osannati, giudici di oggi: sono innumerevoli le occasioni pubbliche in cui personaggi come Di Pietro, Cantone, lo stesso Davigo, hanno dichiarato pubblicamente che un giudice, che  sceglie di entrare in politica, non dovrebbe tornare in magistratura.

Del resto è quasi un’ovvietà: come si può accettare che un magistrato, entrato in politica e tornato in magistratura, possa giudicare un avversario? In una condizione del genere dove finisce il principio di terzietà, d’imparzialità del giudice? Una simile circostanza si verifica solo in Paesi noti alle cronache dell’ingiustizia come la Turchia o l’Egitto, non certo in una corte europea. Da noi un Luciano Violante non si sarebbe mai sognato di tornare in magistratura per giudicare Andreotti. Nè Antonio Di Pietro avrebbe mai pensato di rindossare la toga per condannare in un’aula di Tribunale, Silvio Berlusconi. Dirò di più, e mi rivolgo al gruppo del movimento 5stelle. Pensate, chessò, se la senatrice Finocchiaro, tornasse in magistratura, e si trovasse a dover giudicare un Di Maio, lo trovereste giusto? Cosa pensereste? O, cosa direste, voi tutti, se Michele Emiliano, politico, magistrato da 12 anni in aspettativa, e, ora, candidato alla segreteria del Pd, ritornasse in futuro al suo vecchio mestiere per giudicare in tribunale Matteo Renzi? Mi viene quasi da ridere.

Non basta, aggiungo altri particolari, diciamo stranezze, che ho saputo solo ora. Mi limito ad elencare i fatti. Il relatore del mio processo in Cassazione è stato  Stefano Mogini, già capo di gabinetto del ministro di grazia e giustizia del governo Prodi. Non so perché, ma gira che ti rigira, questa vicenda è affollata di persone che a diverso titolo hanno fatto parte dei governi del Prof. Prodi. Inutile che vi dica che non sto insinuando che Prodi, o lo stesso Napolitano, abbiano complottato contro di me. Nulla è più lontano dalla mia mente. Ma spesso si incontrano persone più realiste del Re. Ebbene, Mogini è stato consigliere giuridico dell’altra delegazione diplomatica che lo Stato italiano ha oltreoceano, quella presso l’Onu. Lui e Sinisi erano i due magistrati che avevamo in America. Hanno lavorato gomito a gomito per cinque anni. Poi, tornati in Italia, nel giro di un anno, sono stati chiamati entrambi a giudicare il sottoscritto, in due diversi gradi di giudizio: beh, francamente, tutto questo fa una certa impressione sul piano delle coincidenze. Scrive Agatha Christie: un indizio è un indizio; due indizi sono una coincidenza; tre sono una prova.

Quello che è avvenuto è preoccupante. E offre uno spaccato del nostro sistema allarmante. Per tornare al personaggio centrale di questa vicenda, un giudice, cioè Sinisi – “politico e magistrato”, non lo dico io, ma così lo definisce wikipedia – che decide sulla permanenza in Parlamento di un avversario politico, è un fatto senza precedenti anche negli annali di questa Repubblica. Una questione che pone non solo il problema del “politico” che torna in magistratura, ma più in generale capovolge un tema che ha caratterizzato il dibattito di questi anni: il problema non è solo quello di salvaguardare l’autonomia della magistratura dal potere politico, ma anche quello di preservare l’autonomia della politica dal potere giudiziario.

Non sono solo io a pormi la questione, ma anche illustri professori come Sabino Cassese, che tra l’altro, in più di un’occasione, ha ricordato come, dal ’94 ad oggi, la presenza di magistrati in Parlamento si è triplicata. Badate, io credo che quanto è avvenuto faccia a botte non solo con il diritto, ma addirittura con il senso comune, specie se si tiene conto del regime istaurato dalla legge Severino. Ma vi rendete conto? Un magistrato, tornato dalla politica, può decidere alzando di sei mesi la pena rispetto addirittura alle richieste della pubblica accusa in tutti e due i gradi di giudizio, la decadenza dal Parlamento di un appartenente allo schieramento avversario. Ma vi rendete conto che meccanismo infernale avete inventato

E una classe politica degna di questo nome, di fronte a questo caso straordinario, può rifugiarsi dietro agli “automatismi”, ai “precedenti” e alla “prassi”? Io credo di no. Come credo che solo i legulei possono difendere l’applicazione retroattiva di una norma come la Severino, infischiandosene del’art.2 del codice penale, dell’art.25 della Costituzione, dell’art.7 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Liquidano il tutto come una sanzione amministrativa, dimenticando che il reato primario, quello su cui la controversa legge interviene, è penale.

Purtroppo il nostro è un sistema pieno di incongruenze e di contraddizioni, ma, soprattutto, c’è un vuoto politico grande come un oceano, quello di assicurare a un imputato un giudice terzo, imparziale, che non sia stato un avversario politico, che andrebbe colmato da voi con un’assunzione di responsabilità per non aumentare la distanza che ci divide dagli altri Paesi europei.

Sono convinto che molti di voi condividano queste preoccupazioni. Ci sono, poi, però, le ragioni della politica, che impediscono a questa consapevolezza di trasformarsi in un agire coerente. Ma mi chiedo: può la politica, le logiche di schieramento, le valutazioni opportunistiche di parte, indurvi a mettere tra parentesi la vostra coscienza, il vostro libero convincimento? Se si preferisce la strada dell’automatismo; se si mette in atto un comportamento pilatesco, e consentitemelo, ipocrita, cosa resta della politica? Secondo me: nulla! Solo, un enorme, vuoto! Ve lo dice uno che, nei quattro anni in cui è stato al Senato, si è trovato spesso a votare contro le indicazioni del suo gruppo di appartenenza.

Qui, la questione è ancora più grande, perché nessuno sa cosa potrebbe riservarci il domani. Il rischio di un regime, di una decadenza della nostra democrazia, è sempre dietro l’angolo. Ricordatevi, nella vecchia Unione Sovietica, come in qualsiasi altro regime, agli oppositori non veniva mai riconosciuto lo status di avversario politico. Erano sempre condannati, non per la diversità di idee, ma alla stregua di malfattori. La necessità che il Parlamento valuti nel merito la vicenda giudiziaria di un  suo membro è, quindi, un’esigenza primaria, proprio per evitare anche la pur minima ombra di una persecuzione. Proprio per non gettare discredito sulla nostra democrazia.

Ecco perché la politica è, innanzitutto, un’assunzione di responsabilità. Io da parte mia questa responsabilità me la sono assunta in toto: sono arrivato fino ad oggi, fino all’ultima tappa di questo calvario. Sono pronto a bere la cicuta. La storia dell’umanità, in fondo, è un lungo elenco d’ingiustizie: proprio oggi, 39 anni fa, fu rapito e ucciso quel galantuomo di Aldo Moro. Poi, qualunque sia l’esito della votazione di oggi, mi dimetterò da senatore. Sicuro di avere la coscienza a posto. A voi, però, offro l’occasione di inviare un segnale su un tema delicato che riguarda il nostro sistema giudiziario e la nostra democrazia. C’è una frase che mesi fa mi ha detto Antonio Di Pietro, cioè il personaggio che con il suo esposto è all’origine di questa assurda vicenda. Una frase che ancora mi rimbomba nelle orecchie. “Magari  – mi ha detto – i guai che hai avuto, li hai avuti per quest’esperienza in politica…La politica porta guai”. Un’amara verità. Non tanto per me, quanto per questo Paese. Guardiamoci negli occhi: una società in cui la politica non è un confronto di idee, non è il servizio più alto che si può dare al proprio Paese, ma si trasforma in un meccanismo infernale che porta guai, non ha un domani. Le garanzie per una giustizia equa, sono l’humus di ogni democrazia. E con queste parole vi lascio alle vostre coscienze e alle vostre responsabilità.

(di Augusto Minzolini)