Lo strumento del “politicamente corretto” sulla via della neolingua

Partendo dalla teoria humboldtiana secondo cui la lingua dà forma al pensiero, che altrimenti sarebbe anodino e non strutturato, e quindi prendendo le mosse dal presupposto che la nostra Weltanschauung sia profondamente influenzata dal linguaggio che parliamo fin dai nostri primi anni di vita, si può affermare parimenti che la nostra lingua determini in qualche maniera il nostro modo di pensare, esercitando di fatto un controllo sulla realtà. È la scia che hanno seguito il linguista e antropologo Edward Sapir e il suo allievo Benjamin Lee Whorf, rifacendosi agli studi di Boas, e formulando quella che viene comunemente indicata, per l’appunto, l’ “ipotesi di Sapir-Whorf”.

Secondo i due studiosi, linguaggio, pensiero e realtà sono estremamente correlati: la categorizzazione dei dati dell’esperienza è già di fatto eseguita dal linguaggio di un popolo – vi è insita, si potrebbe dire – nel quale linguaggio, dunque, si riflettono costumi, stili di vita e forma mentis del popolo stesso. Il mondo reale empirico, extralinguistico, è quindi già schematizzato, secondo questa teoria, dalle categorie della lingua madre; i concetti sono già sottesi ad essa. A diversi idiomi corrisponde allora un diverso modo, per i parlanti, di comprendere e interpretare il mondo, in quanto il segno linguistico esiste prima di noi, che ci precede.

Si spiega così, oltre all’oppressione economico-finanziaria e ideologica che ci tocca subire da parte dell’establishment, la pressione della stessa sulle masse, cui assistiamo da un po’ di tempo a questa parte, sui termini linguistici che, secondo arbitrarie decisioni promosse appunto dai gruppi di potere, sia lecito o illecito utilizzare.

“Se si desidera governare e si vuole continuare a farlo, si deve avere la capacità di condizionare il senso della realtà” scriveva Orwell nel suo capolavoro “1984”. Ed è esattamente quello che stanno facendo i signori del mondialismo al potere attraverso l’imposizione graduale di una “neolingua”, concetto spiccatamente orwelliano, che ha per unico scopo quello di inibire il pensiero. «Udite, udite, è bandita la parola “clandestino”! Da oggi in poi li chiameremo rifugiati, profughi, richiedenti asilo» ci ordinano dai piani alti (e se non sono né l’uno, né l’altro, né l’altro ancora, ma chi se ne frega).

Tanto più che (non l’hanno ancora cancellato da codice penale, pare) il reato di “immigrazione clandestina” e il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” si configurano proprio in questi termini, e gli scafisti vengono proprio incriminati usando questa fraseologia giuridica. Quindi la parola “clandestino” è corretta dal punto di vista della Legge. Sarebbe quasi divertente sbattere sotto il naso ai benpensanti, che fanno sfoggio della loro mediocrità nei vari salotti televisivi difendendo a spada tratta gli item lessicali del politically correct, questa piccola implicita contraddizione, se non fosse tragica la situazione di per sé.

Queste persone, che vogliono limitare la nostra libertà persino nel procedimento mentale che ci porta a scegliere una parola piuttosto che un’altra, si sono auto-investite di una potestà nomopoietica in campo linguistico che si declina nella realtà come una dittatura a tutti gli effetti, ma poiché le conseguenze di queste imposizioni rimangono nei processi della mente e non sono direttamente esternate nella realtà, ovvero non si concretizzano con una coercizione evidente, allora sembrano passivamente accettabili, e nei fatti sono per lo meno tollerate o subite in silenzio. In realtà sono comunque una forma, nascosta, di violenza contro il libero pensiero.

“Si potrà mai avere uno slogan come “La libertà è schiavitù”, quando il concetto stesso di libertà sarà stato abolito? Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all’attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non avere bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa” dichiara un collega di Partito al protagonista di “1984”. Ed è esattamente la direzione che abbiamo preso.

Usano la “dittatura linguistica” come testa di ponte per imporci il totalitarismo in campo economico (si pensi ai vari vocaboli, prelevati dall’inglese, che implicano un mondo di concetti idiosincratici abilmente occultati dall’opacità semantica sottesa all’uso di parole di una lingua straniera, dallo spread, al fiscal compact, al voucher ecc.) e sociale, aggirando in tal modo l’ostacolo di quella conquista dei popoli che si chiama “democrazia”: realizzano in tal modo un controllo sulle masse che una presa di potere politico e militare renderebbe evidentemente e in maniera lampante inaccettabile.

Si inventano perfino, gli alfieri del politically correct, uno psicoreato in piena regola: quello di “islamofobia”, cioè, in altri termini, il divieto assoluto di criticare una religione come l’Islam. E che dire del fatto che vogliono introdurre il reato di “omofobia”? Una cosa è colpevolizzare la discriminazione e l’uso di atteggiamenti violenti, derisori e persecutori nei confronti degli omosessuali (azioni deprecabili, senza dubbio alcuno, verso qualunque tipo di essere umano), altra cosa è inibire, e anzi reprimere totalmente, la facoltà di ogni soggetto di dissentire dal pensiero unico, che impone di giudicare la pratica omosessuale come legittima, naturale e da approvare obbligatoriamente.

In realtà, a ben guardare, il termine stesso di “omofobia”, che vorrebbe proteggere gli omosessuali dall’intolleranza, è diventato esso stesso un vocabolo impugnato per discriminare e colpevolizzare chi crede nella famiglia naturale, monogama, eterosessuale e atta alla procreazione, acquistando esso stesso quel carattere di intolleranza che ci si proponeva di scongiurare ma che è stata invece semplicemente dirottata. L’accusa di “omofobia” è diventata grimaldello ideologico con cui si vuole svalutare e distruggere il concetto stesso di famiglia naturale, che finisce per diventare solo una delle tante forme possibili, perdendo di fatto la connotazione stessa di “naturale”.

E se non si è allineati con il pensiero unico e transnazionale dell’establishment, allora si viene demonizzati e ostracizzati come “populisti”, sicché la propria opinione valida, plausibile e di buon senso viene inesorabilmente sminuita e delegittimata. Cercano continuamente di farti indossare il loro abito mentale, che tu lo voglia o no, che ti piaccia o no, che tu lo senta stretto o no. Implicazioni politiche e ideologiche veicolate subdolamente, al solo scopo di omologare le coscienze perfino attraverso il conformismo linguistico. Siamo alla follia.

Che dire del tweet di Marchisio del marzo scorso, che così commentava la partita della sua squadra: “Ammonizione Zaza… Dicono che ha scalciato. Telecronaca fatta da un non vedente!!!” che ha sollevato un polverone per aver “offeso la comunità dei non vedenti”, in seguito al quale è stato pure indotto a scusarsi? La prossima mossa qual è, eliminare il proverbio “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare” perché se no si offendono “i claudicanti”?

Il processo di ottundimento delle coscienze è in atto: “Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci” scrive Orwell. Se non si può ancora espugnare il pensiero, allora bisogna fare di tutto per controllarlo, e l’imposizione, anche attraverso i media, della neolingua è un ottimo modo per riuscirci.

(di Federica Palmieri)