L’inferno afghano dopo 15 anni di esportazione democratica

Grande è la confusione sotto il cielo dell’Afghanistan. E la situazione non è affatto paradisiaca, perché , se esiste oggi un simbolo del fallimento della “guerra preventiva”, quel simbolo ha di sicuro la bandiera Afghana. Quindici anni di guerra, sangue e denaro hanno reso la terra “dei talebani” un porto franco per ogni causa, secessionista o salafita che sia. Ma andiamo per ordine.

Un mezzogiorno di fuoco dell’8 ottobre 2001 gli Usa disotterrano per l’ennesima volta la loro ascia di guerra. Un’ America ferita dal più infame e sensazionale attacco terroristico, quello dell’11 settembre cerca un mostro da scovare : Osama Bin Laden; e uno “stato canaglia” da punire : l’Afghanistan, che fonti certe dicono che ospiti e nasconda il capo di Al-Qaida.

Una guerra soprattutto emotiva, che nessuno si sogna di condannare, con tutto il mondo che appoggia Bush, e chi contesta tacciato di “pacifismo ipocrita” o addirittura di essere dalla parte dei terroristi. Al Qaida ha colpito il cuore dei “guardiani del mondo”, la punizione deve essere esemplare. E poco conta se gli stessi soggetti oggi da punire ieri erano stati armati e supportati dagli stessi Stati Uniti per opporsi all’invasione sovietica.

Quella che ieri era “resistenza afghana” oggi diventa “terrorismo”. Stessi uomini, ma c’è una differenza sostanziale a fare da discriminante, il bersaglio. L’intervento riscuote consensi inaspettati, come quello della Russia, che offre addirittura il suo spazio aereo, ma soprattutto un nemico ancora più nemico di Mosca: l’Iran.

I primi mesi di guerra afghana hanno tutte le caratteristiche della “guerra lampo”.
La coalizione ISAF a guida Usa, formata in principio da Regno Unito e Alleanza del Nord, ma a cui si aggiungeranno nel tempo Italia, Germania,Francia, Turchia e altre decine di paesi, con il passare degli anni, scaccia in poco tempo gli “studenti coranici” da Kunduz prima e subito dopo da Kandhar.

I talebani perdono terreno giorno per giorno, ma a questo arretramento non fa seguito né la cattura di Bin Laden, né quella del suo vice, l’ideologo di Al-Qaida, l’egiziano Al Zawahiri. I due leader continuano anzi a sbeffeggiare la coalizione occidentale tramite gli ormai celebri messaggi in VHS inviati ad una allora sconosciuta televisione del Qatar , Al Jazeera. La caduta ufficiale del regime dei talebani non significherà pace, né cattura di Bin Laden ( accadrà 10 anni dopo e non in Afghanistan, ma in Pakistan. Lo sceicco saudita verrà ucciso quando Al-Qaida sarà ormai ridotta a ruolo secondario del terrorismo, con la leadership del terrore ormai saldamente in mano al nuovo “brand” ISIL.).

Arriviamo al 2004. Nonostante la guerra sia ufficialmente finita e l’Afghanistan festeggi il suo nuovo governo a guida Hamid Karzai, i talebani controllano ancora un pezzo significativo del nord-est del Paese. Negli anni si susseguiranno loro avanzate ed arretramenti, ma soprattutto si sentiranno i loro attentati, con la coalizione che ne pagherà un prezzo altissimo. Non uscirà indenne da questo tributo di sangue nemmeno il nostro esercito: 53 militari italiani perderanno la vita. E l’avranno persa per nulla, saranno morti per avere, oggi, in quella terra, una situazione ancora più caotica di allora.

Infatti, arrivando ai giorni nostri, un rapporto Nato del 2016 certifica che le forze talebane controllano più aree di quante ne controllassero nel 2004 . Da allora ad oggi il governo centrale non è infatti mai riuscito a garantire sicurezza e stabilità. Come se non bastasse, c’è da registrare l’avanzata da nord-ovest di forze jihadiste autonome ,secessioniste e turcomanne che tentano, in una situazione di caos completo, di guadagnare territorio e il controllo del mercato del papavero da oppio. Altre microsigle islamiste, che si sospetta essere foraggiate dal Pakistan, si scontrano con i civili a nord. Ma a destare seria preoccupazione è l’avanzata di Isis, entrata in Afghanistan già dal 2011 e in continua crescita ed espansione, deciso a strappare ai talebani la leadership del Paese e del mercato di eroina, vera causa dello scontro, celato dietro la guerra confessionale.

Si contano ad oggi oltre 7000 foreign fighters che hanno giurato fedeltà al califfato e si sono aggregati ai guerriglieri locali; altre migliaia sarebbero in arrivo da tutta l’Asia (voci di corridoio dicono armati dalle monarchie del Golfo) e mirano a far cadere la formazione Qaidista, sponsor pakistano in terra afghana.

A fare da spettatore, in questa macedonia di jihadismo, la coalizione occidentale, che dal 2001 ha solo contribuito a peggiorare la situazione, fallendo la missione iniziale. Allora l’Afghanistan si presentava come un territorio controllato dai soli talebani. Dopo 15 anni e più di guerra i talebani si sono rafforzati e si affrontano quotidianamente a colpi di attentati e vere e proprie guerriglie con Isis, turcomanni e varie sigle fondamentaliste, per il controllo di veri e propri mini califfati indipendenti dal governo centrale. Attentati, kamikaze e non, sono ormai all’ordine del giorno.

E a festeggiare sono solo i produttori di papaveri da oppio, da dove si ricava il 97% dell’eroina in giro per il mondo. Dal 2001 ( quando ancora vigeva in tutto l’Afghanistan il divieto della raffinazione di papavero imposto dal Mullah Omar) ad oggi la produzione e la coltivazione del papavero è aumentata del 5000%. E non sono pochi i casi di militari della coalizione Isaf a ritornare in patria letteralmente tossicodipendenti, problema diffuso soprattutto tra i marines USA, che ha cercato di tamponare il problema aprendo centri di riabilitazione e disintossicazione all’interno delle caserme.

L’Afghanistan di oggi rappresenta solo l’ennesimo fallimento USA, il più longevo tentativo di esportazione di democrazia, secondo solo al Kosovo, è diventato palestra del fondamentalismo e vivaio dell’Isis, a pochi chilometri dall’Italia e nel cuore dell’Europa. Afghanistan che doveva essere il monito, una bomba ad orologeria capace di non far ripetere determinati errori all’amministrazione ora uscente, quella di Obama. Monito che non è servito. Come ci insegnano Libia e Siria.

 

(di Luigi Ciancio)