Van Jones e il vuoto morale dei commenti americani su Gaza

Daniele Bianchi

Van Jones e il vuoto morale dei commenti americani su Gaza

Last Friday, during an appearance on Real Time with Bill Maher on HBO, CNN commentator and former Obama adviser Van Jones claimed that Iran and Qatar are running a disinformation campaign to manipulate young Americans into caring about Gaza. To make his point, he crudely imitated what he said appears on their social media feeds: “Dead Gaza baby, dead Gaza baby, dead Gaza baby, Diddy, dead Gaza baby, dead Gaza baby.” Il pubblico rise.

L’osservazione, un grossolano tentativo di umorismo che ha giustapposto la morte di massa allo scandalo delle celebrità, ha messo a nudo la deriva morale che ha contagiato i commenti americani sulla Palestina. Ciò che avrebbe dovuto provocare dolore, invece, provocò risate. Una realtà intrisa di sangue è diventata una battuta finale. Non si è trattato semplicemente di una gaffe, ma della rivelazione di quanto la conversazione si sia allontanata dalla consapevolezza morale.

Jones’s apology came swiftly. He admitted the remark was “insensitive and hurtful”, insisting that his intent had been to highlight how foreign adversaries manipulate social media. Yet intent does not erase consequence. To repeat “dead Gaza baby” for rhetorical effect and to attribute the flood of such images to foreign manipulation campaigns is to trivialise authentic suffering. Trasforma i bambini assassinati di Gaza in oggetti di scena in un dramma morale sulla disinformazione.

Delle vere scuse avrebbero affrontato il problema più profondo: l’istinto, comune nei media statunitensi, di diffidare delle prove del dolore palestinese a meno che non siano filtrate attraverso la convalida occidentale. È un impulso radicato nella gerarchia, la stessa gerarchia che divide il deplorevole dall’usa e getta, l’innocente dal sospettato.

La questione non era solo di tono ma di sostanza. Le osservazioni di Jones, non incontrate né obiezioni né disagio da parte dei suoi colleghi relatori – Thomas Friedman del New York Times e il conduttore Maher – rappresentano un esempio da manuale di come i commentatori occidentali, quando si confrontano con la sofferenza documentata dei palestinesi, ricorrano alla consueta inversione che riformula la verità come propaganda. È un istinto che banalizza le atrocità e, in questo caso, trasformando la morte dei bambini palestinesi in una battuta finale, completa la loro disumanizzazione.

L’affermazione di Jones è assurda in apparenza. L’orrore del mondo per la devastazione di Gaza non è il prodotto della disinformazione del Qatar o dell’Iran; è la risposta naturale di ogni coscienza non ancora cauterizzata. Per coloro che possiedono forza morale, le immagini non hanno bisogno di narrazione; parlano un linguaggio universale di dolore. Decine di migliaia di bambini sono stati uccisi in attacchi verificati, i loro nomi catalogati da organizzazioni umanitarie, i loro corpi estratti dalle rovine da medici e giornalisti stranieri che testimoniano con stanca precisione. Suggerire che queste immagini siano invenzioni di manipolazione piuttosto che prove di atrocità non è analisi ma codardia morale. Significa partecipare alla stessa propaganda che si pretende di denunciare.

Jones’s remark reflects a deeper pathology. Per decenni, gran parte dell’establishment mediatico statunitense ha trattato la morte dei palestinesi come una questione di ottica piuttosto che di etica. Preferisce interrogare le immagini piuttosto che indagare sulle responsabilità. When confronted with the question of whether Israel’s actions meet the legal threshold for genocide — a conclusion reached by leading human rights organisations, including Human Rights Watch, Amnesty International, B’Tselem, and Al-Haq, as well as by the United Nations Human Rights Council, its Independent Commission of Inquiry, and the UN special rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territory — it looks away. Invece di esaminare le prove, si preoccupa della “disinformazione” e del “controllo della narrazione”. L’effetto è quello di sostituire l’analisi morale con l’evasione morale. La questione del genocidio non diventa un crimine da denunciare e punire, ma un problema di branding da gestire.

L’ossessione per la disinformazione tradisce anche una certa arroganza. Si presuppone che i giovani che si ribellano alla carneficina siano stati ingannati da attori stranieri maligni. Non avrebbero potuto arrivare all’indignazione attraverso un ragionamento morale indipendente. La loro compassione deve essere fabbricata, la loro empatia il prodotto di un algoritmo. Tale condiscendenza rispecchia la logica coloniale che nega il libero arbitrio ai colonizzati e l’autenticità a coloro che stanno dalla loro parte.

Ad essere onesti, la disinformazione è reale. Ogni conflitto genera la sua quota di invenzioni. Ma riconoscere questo fatto non autorizza lo scetticismo nei confronti delle atrocità accertate. Quando le prove della sofferenza sono così schiaccianti, il peso cambia: chi ne dubita deve dimostrare la propria tesi. Il riflesso di considerare l’Iran e il Qatar come cattivi esplicativi non è analisi; è evasione. Conforta la coscienza proiettando altrove il disordine morale.

C’è stato un tempo in cui Jones incarnava uno spirito diverso, animato dall’urgenza morale. Il suo lavoro sulla riforma della giustizia penale e sull’equità razziale gli ha conferito la credibilità di una voce di coscienza. Quella credibilità non è andata perduta per semplice disattenzione, ma per il vile istinto di conformarsi e la disponibilità a farsi cooptare dalla retorica dell’impero. Ma il fallimento non è solo suo. Riflette l’ecosistema che lo ha prodotto: una cultura mediatica che premia la deferenza al potere, valorizza la fluidità degli slogan dell’impero rispetto alla fedeltà alla verità ed esalta la cadenza dei punti di discussione al di sopra della sostanza della giustizia.

Le risate nello studio di Maher erano significative. It revealed a desensitised audience that could chuckle at the invocation of dead children because those children belonged to the wrong geography. Sostituisci “bambino ucraino” o “bambino israeliano”, e la stessa battuta grossolana avrebbe suscitato sussulti, non risate. Il doppio standard è la malattia morale della nostra epoca: l’empatia razionata dal passaporto.

Alla fine, questa controversia non riguarda la parola ma la vista. Il compito non è sorvegliare ciò che la gente dice di Gaza, ma costringerla a vedere Gaza: vedere le fosse comuni, gli scheletrici sopravvissuti, le scuole bombardate, gli ospedali ridotti in cenere. Vedere è conoscere, e conoscere è giudicare. Lo sforzo di oscurare quella realtà dietro la nebbia della “disinformazione” non è altro che un rifiuto di vedere.

Le scuse di Jones non rimarginano la ferita che hanno esposto. Fino a quando i media statunitensi non riusciranno a nominare e affrontare la sofferenza senza qualificazioni, la loro autorità morale rimarrà logora. I bambini di Gaza non stanno morendo a causa della disinformazione; stanno morendo a causa delle bombe israeliane e dell’ostinata cecità degli Stati Uniti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Oltre La Linea.

Daniele Bianchi

Daniele Bianchi, nativo di Roma, è il creatore del noto sito di informazione Oltre la Linea. Appassionato di giornalismo e di eventi mondiali, nel 2010 Daniele ha dato vita a questo progetto direttamente da una piccola stanza del suo appartamento con lo scopo di creare uno spazio dedicato alla libera espressione di idee e riflessioni. La sua mission era semplice e diretta: cercare di capire e far comprendere agli altri ciò che sta effettivamente succedendo nel mondo. Oltre alla sua attività di giornalista e scrittore, Daniele investe costantemente nell'arricchimento della sua squadra, coinvolgendo professionisti con le stesse passioni e interessi.