L'arma più pericolosa dell'Asia meridionale non è nucleare

Daniele Bianchi

Siamo musulmani o mujrim? Come l’odio è diventato l’intrattenimento quotidiano dell’India

Ogni mattina nell’India di oggi inizia con due cicli di notizie paralleli. Uno, trasmesso sugli schermi televisivi, è attentamente curato: dibattiti sul Pakistan, orgoglio indù e teatro senza fine su una “nuova India”. L’altro, non televisivo ma profondamente reale, è la routine quotidiana dei musulmani che vengono linciati, molestati, incarcerati e demonizzati. Tra i due, il messaggio è agghiacciante: la sofferenza musulmana viene cancellata o trasformata in uno spettacolo, consumato come intrattenimento serale per la maggioranza, mentre i musulmani stessi sono costretti a vivere come se fossero criminali perpetui, sempre accusati e mai ascoltati.

Prendiamo l’uccisione di un bambino musulmano di sette anni ad Azamgarh lo scorso settembre. Il suo corpo, infilato in una borsa, fu scoperto con agghiacciante indifferenza dai vicini che furono poi arrestati. Per un fugace momento, i resoconti locali hanno riportato la storia, ma è rapidamente scomparsa dalla televisione in prima serata, sostituita da accesi dibattiti sul “love jihad”, sulle tensioni al confine o sulla partita di cricket India-Pakistan. La morte di un bambino musulmano non rientrava nel copione dell’indignazione nazionale. Invece, è diventata parte dell’archivio silenzioso della violenza normalizzata. Il sociologo Stanley Cohen una volta scrisse degli “stati di negazione”: società in cui le atrocità non vengono nascoste ma assorbite in modo così abituale da non scioccare più. Questa è l’India di oggi: gli omicidi dei musulmani avvengono alla luce del giorno, ma la maggioranza li vede come un rumore di sottofondo.

Allo stesso tempo, l’odio non è solo silenzio; è una prestazione. Quando i musulmani a Kanpur hanno innalzato cartelli con la scritta “Io amo Maometto”, la polizia ha risposto non con protezione ma con FIR contro 1.300 musulmani e arresti di massa. L’atto d’amore stesso è stato criminalizzato. Eppure, quando le folle dell’Hindutva si riuniscono nel Maharashtra o nel Madhya Pradesh, invocando apertamente il genocidio, le troupe televisive le glorificano o distolgono silenziosamente lo sguardo. La violenza contro i musulmani è diventata una sorta di teatro, un copione in cui i musulmani sono sempre sotto processo e le forze dell’Hindutva svolgono il ruolo di guardiani della civiltà.

Questa visibilità selettiva è intenzionale. L’ascesa dei “bazar jihadi-mukt” a Indore, dove i commercianti musulmani sono stati espulsi da un giorno all’altro, è un linciaggio economico. Intere famiglie hanno perso i loro mezzi di sostentamento, i bambini sono stati ritirati da scuola e le donne sono state lasciate a mendicare il cibo ai vicini. Eppure i media nazionali lo hanno definito un “aggiustamento della legge e dell’ordine”, notando a malapena il costo umano. I gruppi Hindutva hanno festeggiato sui social media, trasformando l’espropriazione dei musulmani in intrattenimento virale. Quello che avrebbe dovuto essere uno scandalo nazionale è stato presentato come una “tensione locale” di routine.

Il Primo Ministro Yogi Adityanath incarna questa cultura dello spettacolo. Dalla sua fase ufficiale, sputa veleno contro i musulmani, definendoli “infiltrati” e “simpatizzanti del terrorismo”. Queste non sono voci marginali; sono l’élite dominante. Eppure, i cosiddetti partiti di opposizione non rispondono con indignazione ma con le loro versioni annacquate dell’Hindutva, in competizione per dimostrare chi può apparire più “filo-indù”, mentre le paure dei musulmani vengono messe a tacere. Questo consenso bipartisan ha reso chiaro: i musulmani non sono più soggetti politici in India; sono oggetti di scena politici.

Il costo di ciò è più che fisico; è psicologico ed esistenziale. Vivere come musulmano oggi significa vivere come un sospettato permanente – osservato nella moschea, giudicato al mercato, messo in dubbio in classe. Ogni preghiera del venerdì sembra un rischio. Ogni richiamo dell’altoparlante dell’azaan sembra ad alcuni una provocazione, anche se è il battito del cuore di una comunità. Il poeta urdu Sahir Ludhianvi una volta scrisse: “jinhe naaz hai Hind par, woh kahan hain?” (“Dove sono adesso quelli orgogliosi dell’India?”). La domanda riecheggia oggi: se questa è la grandezza dell’India, perché essa pretende ogni giorno l’umiliazione dei musulmani come prova?

Lo studioso musulmano di origine ugandese Mahmood Mamdani offre un quadro che ci aiuta a dare un nome a questa realtà. Nella sua famosa opera Good Muslim, Bad Muslim, spiega come gli stati e le società dividono i musulmani in due categorie: quello “accettabile” che si sottomette silenziosamente, e quello “pericoloso” che resiste o addirittura afferma la propria dignità. In India, questa divisione viene utilizzata quotidianamente come arma. Il musulmano che nasconde la sua fede, che resta invisibile, è tollerato. Ma il musulmano che afferma la propria identità – che dice in pubblico “Io amo Muhammad”, che chiede pari diritti, che si oppone alla cancellazione – viene immediatamente considerato mujrim, il criminale. Mamdani ci ricorda che non si tratta di teologia, ma di potere: chi ha il diritto di definire la legittimità e chi deve vivere sotto sospetto.

Questo è il motivo per cui i video dei linciaggi circolano su WhatsApp come meme, perché i conduttori sorridono quando diffondono teorie del complotto sull’“esplosione della popolazione musulmana” e perché le folle ridono dopo aver dato fuoco ai negozi. L’odio non è più solo politica; è diventato svago collettivo. Quando la crudeltà diventa commedia, quando l’umiliazione diventa un copione da prima serata, il confine tra democrazia e fascismo è già crollato.

La storia ci avverte: le società che trasformano la sofferenza delle minoranze in intrattenimento non rimangono immuni dal marciume. Il silenzio dei liberali tedeschi durante le manifestazioni naziste, la disinvolta indifferenza degli americani durante il linciaggio dei neri e il tifo delle folle israeliane durante i bombardamenti a Gaza ricordano tutti che l’intrattenimento costruito sull’odio alla fine divora la società stessa. L’India non è esente.

Quindi torno alla domanda: siamo musulmani o mujrim? Perché dobbiamo vivere ogni giorno sotto processo mentre gli assassini sono liberi? Perché la morte dei nostri figli deve essere cancellata mentre lo stato celebra “Amrit Kaal”? La risposta non spetta solo ai musulmani; spetta alla maggioranza indiana decidere se continuare a guardare l’odio come serie televisiva preferita o spegnere definitivamente lo schermo.

Poiché il giorno in cui l’odio diventa l’unica forma di intrattenimento nazionale, i titoli di coda non si limiteranno a ricadere sui cadaveri dei musulmani. Ribalteranno la morte della Repubblica stessa. E la storia non ti chiederà se eri indù o musulmano, di destra o liberale, ti chiederà solo perché una società che si vantava della civiltà ha trasformato la crudeltà in commedia e il silenzio in consenso. La questione che si pone alla maggioranza dell’India non riguarda più la tolleranza o il secolarismo; si tratta di sapere se riescono ancora a riconoscere l’umano nel loro prossimo.

Se oggi applaudi quando il musulmano viene punito come mujrim, domani ti sveglierai e scoprirai che la stessa nazione per cui hai tifato si è trasformata nella tua prigione, e a quel punto, la risata dell’odio sarà l’unico suono rimasto in questa Repubblica.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Oltre La Linea.

Daniele Bianchi

Daniele Bianchi, nativo di Roma, è il creatore del noto sito di informazione Oltre la Linea. Appassionato di giornalismo e di eventi mondiali, nel 2010 Daniele ha dato vita a questo progetto direttamente da una piccola stanza del suo appartamento con lo scopo di creare uno spazio dedicato alla libera espressione di idee e riflessioni. La sua mission era semplice e diretta: cercare di capire e far comprendere agli altri ciò che sta effettivamente succedendo nel mondo. Oltre alla sua attività di giornalista e scrittore, Daniele investe costantemente nell'arricchimento della sua squadra, coinvolgendo professionisti con le stesse passioni e interessi.