Perché non smetterò di raccontare le storie di Gaza

Daniele Bianchi

Perché non smetterò di raccontare le storie di Gaza

C’è uno sguardo che ho imparato a riconoscere: il modo in cui gli occhi di un bambino si spalancano quando mi vedono, con indosso un giubbotto stampa e con in mano il microfono. Non è curiosità. È speranza. Una fragile, disperata speranza che forse porti con sé risposte che non ho.

“Quando finirà tutto questo?” mi ha chiesto una volta un ragazzo, tirandomi per la manica mentre filmavo vicino al suo rifugio. Non poteva avere più di cinque anni, aveva i piedi nudi e incrostati di polvere.

I suoi amici si radunarono attorno a lui, osservandomi come se possedessi una chiave segreta per il futuro. “Quando possiamo tornare a casa?”

Non sapevo cosa dire. Non lo faccio mai. Perché, come loro, sono sfollato. Come loro, non so quando e se questa guerra finirà mai. Ma ai loro occhi, sono qualcuno che potrebbe saperlo. Qualcuno che, semplicemente essendo lì con una macchina fotografica, potrebbe cambiare qualcosa.

E così si aggrappano a me. Mi seguono tra le macerie e le strade dissestate, facendo domande a cui non posso rispondere. A volte non dicono proprio nulla. Camminano semplicemente al mio fianco, in silenzio, come se la mia sola presenza fosse sufficiente a riempire il silenzio che la guerra ha lasciato dietro di sé.

Non riesco a contare quante volte una madre mi ha preso da parte dopo un colloquio, mi ha tenuto forte la mano e mi ha sussurrato: “Per favore… puoi aiutarci?” Le loro voci tremano non per la rabbia, ma per la stanchezza – il tipo di stanchezza che ti penetra nelle ossa e non se ne va mai.

Non chiedono molto. Ancora qualche coperta. Sapone. Medicina per i loro figli. E rimango lì, con la macchina fotografica ancora accesa, annuendo, cercando di spiegare che sono qui per raccontare le loro storie, non per fornire aiuti. Ma cos’è una storia per una neomamma che non ha nemmeno un materasso su cui dormire, figuriamoci per il suo neonato?

Rivivo questi momenti ogni volta che mi siedo per scrivere. Si ripercuotono nella mia mente come echi: ogni volto, ogni voce. E con ogni parola che metto sulla pagina, mi chiedo se farà la differenza. Mi chiedo se le persone che leggono le mie parole, che guardano i miei resoconti, capiranno che dietro la politica e i titoli dei giornali c’è questo: una donna che lava i vestiti del suo bambino nell’acqua di scarico, un ragazzo che fruga nella spazzatura per trovare qualcosa da vendere, una ragazza che non va a scuola perché non può permettersi gli assorbenti.

Non mi occupo di politica. Non ne ho bisogno. La guerra parla da sola nei più piccoli dettagli.

È nel groviglio di piedi sotto le tende, dove le famiglie condividono spazi troppo piccoli per respirare. È nel modo in cui i bambini tossiscono di notte, con il petto pesante per l’umidità e il freddo. È alla vista dei padri in riva al mare, che guardano fuori come se le onde potessero portare via i loro fardelli.

C’è qui una specie di dolore che non urla. Permane, morbido e persistente, in ogni angolo della vita.

Un giorno, mentre stavo facendo un resoconto vicino a un gruppo di tende abbandonato, una ragazza mi ha consegnato un disegno che aveva fatto sul retro di una vecchia scatola di cereali. Era semplice – fiori e uccelli – ma al centro aveva disegnato una casa, intera e intatta. “Questa è casa mia”, mi ha detto. “Prima.”

Prima.

Quella parola ha così tanto peso a Gaza. Prima che colpisca l’aria. Prima dello spostamento. Prima che la guerra portasse via tutto tranne la sopravvivenza.

Scrivo queste storie non perché credo che metteranno fine alla guerra, ma perché sono la prova che esistevamo. Che nonostante tutto, abbiamo mantenuto qualcosa. Dignità. Resilienza. Speranza.

C’è una scena a cui torno spesso. Una donna in piedi all’ingresso del suo rifugio, spazzola i capelli di sua figlia con le dita perché non può permettersi un pettine. Canticchia dolcemente una ninna nanna che copre il suono orribile degli attacchi aerei ravvicinati e dei bombardamenti distanti. Sua figlia si appoggia a lei, con gli occhi socchiusi, al sicuro solo per un momento.

Non so che aspetto abbia la pace, ma penso che potrebbe sembrare così.

Questa è la Gaza che conosco. Questa è la Gaza di cui scrivo. E non importa quante volte racconterò queste storie, continuerò a raccontarle, perché contano. Perché, un giorno, spero che quando un bambino mi chiederà quando finirà la guerra, potrò finalmente dargli la risposta che aspettava.

Fino ad allora, porterò con me le loro voci e mi assicurerò che il mondo le ascolti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Oltre La Linea.

Daniele Bianchi

Daniele Bianchi, nativo di Roma, è il creatore del noto sito di informazione Oltre la Linea. Appassionato di giornalismo e di eventi mondiali, nel 2010 Daniele ha dato vita a questo progetto direttamente da una piccola stanza del suo appartamento con lo scopo di creare uno spazio dedicato alla libera espressione di idee e riflessioni. La sua mission era semplice e diretta: cercare di capire e far comprendere agli altri ciò che sta effettivamente succedendo nel mondo. Oltre alla sua attività di giornalista e scrittore, Daniele investe costantemente nell'arricchimento della sua squadra, coinvolgendo professionisti con le stesse passioni e interessi.