In un articolo precedente ho attirato l’attenzione sull’inadeguatezza della risposta della comunità internazionale finora alla guerra di aggressione condotta dalla milizia Rapid Support Forces (RSF) e dai suoi sponsor esterni contro il popolo e lo Stato sudanese. Qui, vorrei spiegare come il diritto internazionale fornisca una solida base per la risoluzione pacifica di questa crisi.
Il diritto di uno Stato a difendere se stesso e i propri cittadini è un principio fondamentale del diritto internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. Per gli Stati, l’autodifesa non è un semplice privilegio, ma un dovere: hanno l’obbligo di salvaguardare la propria sovranità e il benessere del proprio popolo.
Nei tempi moderni, tuttavia, gli stati sono spesso costretti a difendersi non da altri stati, ma da attori non statali come gruppi terroristici, organizzazioni criminali e milizie. La milizia RSF che attualmente sta muovendo guerra allo stato sudanese è uno di questi attori non statali.
Il diritto internazionale è chiaro sui diritti e le responsabilità di uno Stato in caso di conflitto, indipendentemente dal fatto che il conflitto in questione sia contro un altro Stato o un attore non statale. Tuttavia, le istituzioni incaricate di sostenere il diritto internazionale spesso inavvertitamente minano la sovranità dello Stato quando rispondono a un conflitto tra uno Stato e un attore non statale, come quello in Sudan. Lo fanno offrendo agli attori non statali la stessa legittimità degli Stati e delle loro istituzioni e politicizzando il loro approccio alle questioni relative alla giustizia, ai diritti umani e al diritto umanitario.
L’ultimo rapporto della Missione di accertamento dei fatti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sul Sudan è un esempio calzante. Il rapporto documenta le atrocità senza precedenti e le gravissime violazioni del diritto umanitario internazionale commesse dalle milizie RSF, tra cui crimini di guerra, crimini contro l’umanità, violenza sessuale, schiavitù e reclutamento di bambini. La Missione, tuttavia, sfidando la logica e la giustizia, chiede di imporre un embargo sulle armi non solo alle RSF, ma anche alle Forze armate sudanesi, l’esercito nazionale che difende il popolo sudanese dalle milizie selvagge. In altre parole, la Missione chiede che lo stato sudanese venga privato del suo diritto e della sua responsabilità più fondamentali: l’autodifesa contro un nemico feroce che minaccia la sua sovranità.
Violenza e atrocità
La milizia RSF condivide tratti importanti con gli attori non statali più estremisti e pericolosi del mondo. Segue un’ideologia estremista, conduce operazioni transfrontaliere mortali e impiega brutalità indiscriminata, danneggiando donne e bambini indifesi. Mentre la violenza etnica e di genere della milizia è ben documentata, è stata prestata meno attenzione ai suoi altri tratti problematici.
Come alcuni dei gruppi armati più letali con cui la comunità internazionale ha dovuto confrontarsi negli ultimi anni, l’estrema violenza delle milizie RSF deriva da un’ideologia di supremazia razziale. La milizia cerca di creare una patria esclusiva nel territorio sudanese per le tribù arabe del Darfur e del Sahel. Per raggiungere questo obiettivo, la milizia caccia via le popolazioni locali da regioni fertili come Darfur, Kordofan, Al-Gezira e Sennar, e insedia al loro posto nomadi arabi.
Estremismo razzista
Di recente, diversi organi di stampa internazionali hanno evidenziato i pericoli di questo progetto. Il noto scrittore sudanese Osman Mirghani, ex vicedirettore del quotidiano panarabo Al-Sharq Al-Awsat, tra gli altri, ha messo in guardia in vari articoli e resoconti giornalistici sulle conseguenze di vasta portata di questo schema. All’inizio di questo mese, un’indagine congiunta di Sky News, Lighthouse Reports, The Washington Post e Le Monde ha esposto gli sforzi sistematici dell’RSF per ripulire etnicamente vaste aree del Darfur. Un video pubblicato come parte dell’indagine mostrava miliziani dell’RSF e combattenti arabi alleati che cantavano “vittoria per gli arabi” mentre erano circondati dai corpi insanguinati delle vittime civili del loro ultimo massacro.
Nel frattempo, i social media sono inondati di video di giovani arabi del Sahel che celebrano i presunti successi militari della RSF nel Darfur e in altre regioni, con personaggi di spicco di queste comunità che elogiano pubblicamente il “leader emergente” della milizia, Hemedti (Mohamed Hamdan Dagalo).
Come ha osservato all’inizio del conflitto il rinomato esperto del Corno d’Africa Alex de Waal, “la RSF è ora un’impresa mercenaria transnazionale privata” in grado di trasformare il Sudan in una sussidiaria di questa impresa se non controllata. La milizia stessa è diventata fortemente dipendente dal supporto di mercenari e membri delle tribù arabe a seguito di perdite significative contro l’esercito sudanese.
Risposta e responsabilità internazionale
La comunità internazionale, che in passato ha affrontato gruppi armati simili con forza e determinazione, ha ampiamente sottovalutato la minaccia che la milizia RSF (in precedenza nota come Janjaweed) rappresenta per il Sudan, la regione e la stabilità globale. Infatti, alcuni attori statali e non statali continuano a fornire supporto militare alla milizia, consentendole di perpetrare impunemente violenze contro il popolo sudanese.
L’RSF non rappresenta più una minaccia solo per il Sudan, ma per l’intera comunità internazionale e, in quanto tale, richiede una risposta unitaria e basata su principi.
I criminali non si sottomettono volontariamente alla legge. Gli Stati impongono loro la legge per proteggere se stessi. Oggigiorno alcuni studiosi descrivono l’ordine internazionale come “anarchico” a causa dell’assenza di un’autorità suprema riconosciuta a livello globale. Tuttavia, ci sono ancora meccanismi e strumenti che aiutano gli Stati a proteggere la propria gente e a imporre legge e ordine agli attori canaglia. Questi meccanismi includono il diritto internazionale, l’ONU e simili organizzazioni regionali. Potrebbero non essere perfetti, ma senza di essi, rischiamo di sprofondare nell’illegalità.
Valori contro convenienza politica
È preoccupante vedere molte nazioni dare priorità ai loro ristretti interessi nazionali rispetto ai valori universali quando si tratta di condannare i crimini contro i civili e impedire il reclutamento di mercenari. Questo approccio selettivo erode le fondamenta della giustizia internazionale e dei diritti umani. Il mondo non deve ignorare la sofferenza del popolo sudanese per motivi di convenienza politica o guadagno economico. Trovare una strada verso una pace duratura in Sudan richiede un nuovo approccio per gestire la RSF. La comunità internazionale deve agire non solo attraverso una condanna vocale, ma anche misure concrete che chiedano conto ai leader, ai finanziatori e agli sponsor della milizia. La priorità deve essere data al taglio della fornitura di armi e mercenari alla milizia.
Inoltre, la comunità globale dovrebbe supportare il Sudan nell’istituzione di un processo di pace globale. Ciò include la promozione del dialogo tra tutte le parti interessate, il rafforzamento delle istituzioni statali e la promozione del rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto. Il popolo sudanese merita un futuro libero da violenza e oppressione, realizzabile solo attraverso un autentico impegno per la pace e la giustizia. È tempo che il mondo si schieri con il popolo sudanese e chieda conto a coloro che commettono atrocità. Solo attraverso uno sforzo unito e basato sui principi si possono raggiungere una pace e una stabilità durature in Sudan. Il futuro del paese dipende dalla nostra determinazione collettiva a sostenere la giustizia, i diritti umani e lo stato di diritto.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Oltre La Linea.