In questi primi giorni di quella che viene salutata come una “nuova era” in Siria, le autorità che ora controllano Damasco stanno inviando segnali contrastanti. Da un lato, esprimono il loro impegno a preservare le istituzioni statali della Siria e a rispettare la diversità della sua popolazione. D’altro canto, però, segnalano l’intenzione di monopolizzare il delicatissimo processo di transizione politica e, di conseguenza, il potere statale.
Il percorso che alla fine sceglieranno di seguire determinerà se gli errori e i calcoli errati che hanno devastato non solo la Siria di al-Assad ma anche l’Iraq e il Libano si ripeteranno qui in questa “nuova era”.
Prima che le forze di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), sotto il comando del generale Ahmed al-Sharaa, alias Abu Mohammed al-Julani, entrassero a Damasco l’8 dicembre, si erano impegnate a mantenere la struttura formale delle istituzioni del paese. L’ex primo ministro Mohammed al-Jalali è rimasto formalmente in carica fino al 10 dicembre e ha svolto almeno un ruolo cosmetico nel passaggio di consegne a Mohammed al-Bashir, il primo ministro transitorio che ricoprirà questo ruolo fino a marzo.
Poco prima, le forze dell’HTS avevano anche annunciato un’amnistia generale per i soldati dell’esercito siriano, segnalando la loro intenzione di preservare l’esercito regolare, che è un pilastro centrale dello Stato.
Preservare la struttura e l’unità dell’istituzione militare è fondamentale per prevenire il collasso dello Stato durante una transizione politica. Abbiamo visto le conseguenze disastrose di un mancato adempimento in questo senso in Iraq, nel 2003. In effetti, l’Iraq sta ancora soffrendo le conseguenze di questo grave errore oggi, più di 20 anni dopo la distruzione del suo organo militare durante l’invasione.
Le autorità di HTS inoltre non hanno mostrato alcun interesse, almeno finora, ad avviare un intenso processo di de-baatificazione simile a quello che ha svuotato tutte le istituzioni irachene e destabilizzato il paese per decenni dopo la caduta di Saddam. A tutti gli effetti, sembra che le nuove autorità non abbiano intenzione di prendere di mira il partito Baath, che è al potere a Damasco dal 1963, come istituzione. La dirigenza dell’ex partito unico ha annunciato la sospensione delle attività, ma non la loro cessazione. Il sito web del partito è ancora operativo – e contiene addirittura una foto di Bashar al-Assad – e i suoi uffici centrali e locali non sono stati attaccati sistematicamente, come ci si sarebbe potuto aspettare all’indomani del cambio di regime.
Tra gli altri segnali positivi, il primo ministro ad interim al-Bashir ha dichiarato che il nuovo governo intende sciogliere le oppressive agenzie di sicurezza che, dagli anni ’60, hanno terrorizzato milioni di siriani. Ha annunciato l’intenzione di abrogare le cosiddette “leggi antiterrorismo”, entrate in vigore nel 2012 come versione rinnovata delle leggi speciali che, per più di 50 anni, hanno legittimato tribunali militari che prendevano di mira centinaia di migliaia di attivisti e dissidenti.
Si tratta di passi innegabilmente positivi, molti dei quali riflettono il desiderio di costruire una nuova Siria senza smantellare gli elementi fondamentali che ne rendono possibile la sopravvivenza come Stato. Anche le interazioni delle autorità entranti con i cittadini a livello comunale, che finora sono state caratterizzate da un’enfasi sulle relazioni civili e non militari, segnalano un approccio costruttivo alla governance.
Tuttavia, tutti questi segnali promettenti sono in qualche modo oscurati dalle mosse e dalle dichiarazioni delle autorità entranti che portano con sé echi del passato autoritario della Siria, che potrebbero portare il paese a ripetere gli errori commessi dai suoi vicini durante le loro transizioni politiche.
Il leader dell’HTS al-Sharaa, ad esempio, ha annunciato la nomina di al-Bashir, che in precedenza aveva guidato il cosiddetto governo di salvezza di Idlib, a primo ministro senza consultare alcuna forza esterna al gruppo. Questa nomina, fatta unilateralmente e basata esclusivamente su legami interni al gruppo, ha fatto temere che i meccanismi di potere disfunzionali della Siria di al-Assad possano continuare nella nuova era.
Un altro fatto sorprendente è stata la decisione di esporre la bandiera HTS – raffigurante la professione di fede islamica (shahada) in nero su sfondo bianco – durante la prima riunione del nuovo governo, tenutasi nell’ufficio del primo ministro. A molti questo ha ricordato come, fino a pochi giorni fa, il tricolore siriano fosse sempre accompagnato dallo stendardo del partito Baath di Assad.
Meno sorprendente, ma non meno significativa, è stata la contraddizione implicita tra le dichiarazioni mediatiche delle nuove autorità sull’inclusività del loro progetto di costruzione dello Stato e il loro silenzio riguardo all’inclusione delle comunità curdo-siriane. Al-Sharaa e la sua cerchia ristretta sembrano riluttanti ad abbracciare i curdi e a invitarli a prendere parte a questo progetto nazionale mentre sono in corso delicate trattative sugli equilibri di potere lungo l’Eufrate tra Turkiye, che sostiene HTS, e gli Stati Uniti, che mantengono un presidio militare presenza nelle aree controllate dai curdi. Inoltre, l’apertura ai curdi potrebbe rischiare di inimicarsi Turkiye, che i nuovi leader di Damasco probabilmente considerano cruciale per mantenere il sostegno se il loro nascente progetto di governance vuole avere successo.
D’altro canto, i nuovi governanti di Damasco avrebbero potuto condannare con più forza le annessioni di fatto effettuate da Israele a sud-ovest di Damasco, così come la serie senza precedenti di attacchi aerei israeliani contro le installazioni dell’esercito siriano – lo stesso esercito che al-Sharaa sostiene di voler proteggere dal collasso post-Assad. Il quasi silenzio di al-Sharaa e del suo nuovo primo ministro sulle relazioni con Israele ha fatto sollevare le sopracciglia a molti siriani. Sebbene indubbiamente sollevati dalla “liberazione” dopo mezzo secolo, i siriani rimangono profondamente attaccati ai principi della difesa nazionale, così come alla preservazione della sovranità e dell’integrità territoriale della Siria.
I vertici militari che hanno colmato il vuoto lasciato dal regime di Assad non hanno ancora dato indicazioni chiare sulla traiettoria della transizione che stanno supervisionando. Né hanno riconosciuto l’unica tabella di marcia attualmente sul tavolo dei negoziati internazionali: la Risoluzione ONU 2254 del 2015. Questo documento delinea il percorso verso una transizione ordinata, con due priorità generali: salvaguardare lo Stato, distinto dal regime, ed evitare ulteriori spargimenti di sangue. L’urgenza di queste priorità è sottolineata dai preoccupanti, anche se forse inevitabili, episodi di regolamento di conti emersi nelle strade e nelle piazze di varie città siriane dopo decenni di violenza sistemica inflitta dal regime.
Questi principi sono esplicitamente sanciti nella risoluzione 2254 delle Nazioni Unite. Sebbene la risoluzione sia stata elaborata in un contesto politico e militare molto diverso dalle realtà odierne, la sua tabella di marcia per una transizione ordinata guidata dalla Siria rimane una guida preziosa. La risoluzione chiede l’istituzione di un governo di transizione con pieni poteri esecutivi che includa le forze politiche siriane, la stesura di una nuova costituzione e elezioni legislative sotto la supervisione delle Nazioni Unite entro 18 mesi dall’inizio della transizione. Garantisce inoltre il diritto di voto a tutti i siriani, compresi i rifugiati e i membri della diaspora. In particolare, il testo esclude esplicitamente i “gruppi terroristici” e HTS è stato designato come tale dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite meno di tre anni dopo l’adozione della risoluzione. Al-Sharaa e i suoi alleati potrebbero quindi non sentirsi obbligati ad aderire a una risoluzione negoziata senza la loro partecipazione da parte di partiti stranieri che li hanno demonizzati.
È fondamentale che i governi occidentali, invece di affrettarsi a trovare una soluzione formale per riconoscere HTS come partner legittimo nonostante la loro designazione “terroristica”, facciano pressione sui nuovi governanti di Damasco affinché avviino una transizione politica veramente inclusiva in linea con i principi delineati nella Convenzione del 2015. risoluzione.
A tal fine, la società civile siriana – sia gli enti pubblici che quelli a lungo repressi o clandestini, all’interno del paese e nella diaspora – deve mobilitarsi urgentemente per creare spazi per il dialogo politico e civile che trascendano le appartenenze comunitarie.
Il rischio è chiaro: la Siria sotto HTS potrebbe trasformarsi in una versione più ampia del Libano, con istituzioni che appaiono democratiche e repubblicane ma in realtà sono controllate da una ristretta élite che esercita il potere verticalmente attraverso lealtà settarie e clientelari, sostenute dai rispettivi protettori stranieri. Per evitare questo destino è necessario dare priorità alla parità di accesso ai servizi di base e ai diritti fondamentali – come l’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’occupazione e l’alloggio – in modo inclusivo ed equo, piuttosto che esclusivo e settario.
Solo promuovendo la cittadinanza attiva e costruendo connessioni orizzontali al di là delle divisioni comunitarie i siriani potranno garantire un futuro libero dalle corrosive eredità dell’autoritarismo di Assad.
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