Cessate il fuoco a Gaza: una calma fragile in mezzo a una lotta senza fine

Daniele Bianchi

Cessate il fuoco a Gaza: una calma fragile in mezzo a una lotta senza fine

L’annuncio di un accordo di cessate il fuoco a Gaza segna senza dubbio un momento critico nel conflitto in corso. Per quelli di noi che hanno assistito, sperimentato e poi osservato, pianto e sostenuto da lontano, questa pausa nelle ostilità offre l’opportunità di riflettere sugli ultimi 15 mesi e sul pesante prezzo pagato per questa calma fugace.

Come palestinese, ricevere questa notizia è come trovarsi nell’occhio di un ciclone, in un momento di calma spettrale circondato da caos e distruzione. Per me, almeno, segna la fine dello spargimento di sangue, ma il fatto è che quelli che abbiamo perso non torneranno mai più, e queste cicatrici non guariranno mai. Come potrebbe mai un cessate il fuoco cambiare questo fatto?

I cessate il fuoco sono spesso salutati come vittorie della diplomazia, ma per me sono più come pause in un incubo costante. Quest’ultimo accordo ricorda che, per la popolazione di Gaza, la sopravvivenza spesso dipende dalla fragilità della politica. Bambini, madri e padri portano il peso insopportabile dell’incertezza. Mi ritrovo a chiedermi: è davvero un passo verso la pace, o solo un altro capitolo di una storia di giustizia ritardata e sofferenza estesa?

I termini del cessate il fuoco, raggiunto sotto un’enorme pressione internazionale, includono la sospensione degli attacchi aerei e del lancio di razzi, insieme a disposizioni per consentire l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza. Queste misure sono disperatamente necessarie. Ma la loro necessità è anche un’accusa contro l’incapacità della comunità internazionale di agire tempestivamente per prevenire le crisi che rendono cruciali tali misure. Gli aiuti sono vitali, ma non possono guarire le ferite dell’oppressione, aperte e sanguinanti. La pace temporanea non può sostituire il diritto di vivere liberamente e di sognare oltre la sopravvivenza.

La Corte internazionale di giustizia (ICJ), la Corte penale internazionale (CPI) e i loro mandati di arresto, che avrebbero dovuto affrontare i crimini commessi contro il nostro popolo, sono oscurati dall’inazione politica. Il mondo perseguirà questi meccanismi una volta finita la guerra, o la giustizia sarà sepolta sotto una montagna di burocrazia e indifferenza? L’incapacità di imporre la responsabilità prima, durante e dopo il conflitto rivela quanto profondamente imperfette siano queste istituzioni.

Gli aiuti sono vitali, ma non possono guarire le ferite dell’oppressione. La pace temporanea non può sostituire il diritto di vivere liberamente e di sognare oltre la sopravvivenza. Ciò fa sorgere un’altra domanda cruciale: i palestinesi otterranno mai il diritto di avere il pieno controllo sul loro percorso politico e diplomatico verso la giustizia, o saranno sempre eliminati dalla scena politica e ritratti per adattarsi al ruolo della vittima? Sebbene il riconoscimento internazionale della nostra difficile situazione sia fondamentale, dobbiamo tracciare un percorso verso l’indipendenza dalle potenze globali inaffidabili.

Per i palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, l’assedio è un tipo di guerra a sé stante. È una violenza senza bombe, ma non per questo meno devastante. Il blocco, giunto ormai al suo 17° anno, ha eroso il tessuto della vita. Ha derubato le famiglie di opportunità, negato loro l’accesso ai diritti fondamentali e imposto una lotta quotidiana che sfida i limiti della resistenza umana. Come possiamo ricostruire una vita in tali condizioni, sapendo che questo cessate il fuoco potrebbe crollare con la stessa rapidità con cui è arrivato? Come sogniamo un futuro quando il presente sembra uno stato di lutto eterno?

Durante la guerra, decisioni come l’interruzione dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA) hanno esacerbato la crisi umanitaria. L’incapacità della comunità internazionale, comprese entità disparate come l’ONU, il G8 o i BRICS, di intervenire in tempo per ripristinare tali linee di vita vitali per i palestinesi evidenzia ulteriormente il suo fallimento nel proteggere la vita civile e nel sostenere il diritto umanitario. Cosa succede quando le reti di sicurezza, già troppo fragili, vengono arbitrariamente rimosse senza una resistenza globale abbastanza potente da alleviare la crisi?

La comunità internazionale, in particolare le potenze occidentali, devono affrontare il proprio ruolo nel preservare questo ciclo. Le dichiarazioni di sostegno al cessate il fuoco suonano vuote quando non sono accompagnate da azioni significative, responsabilità, protezione dei civili e un impegno reale ad affrontare le cause profonde di questo conflitto. Lo squilibrio di potere, la brutale realtà dell’occupazione, il blocco soffocante: queste non sono questioni marginali. Sono il nocciolo del problema.

Come possiamo fidarci della stessa amministrazione americana – guidata per ora da Biden e presto da Trump – che ha fatto pressioni per questo cessate il fuoco quando le sue azioni hanno costantemente minato la pace nella regione? Le decisioni della prima amministrazione del presidente eletto Donald Trump di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme e di riconoscere le alture di Golan come parte di Israele ricordano chiaramente un’agenda che privilegia il potere rispetto alla giustizia. Inoltre, resta il timore che questa amministrazione sposti la sua attenzione sulla Cisgiordania, trasferendovi le stesse politiche di violenza e sfollamento. Tali decisioni dimostrano che qualsiasi pausa nella violenza non equivale a un cambiamento nella politica o nelle priorità.

Mentre elaboro questo momento, sento sia un barlume di speranza che un’ondata di rabbia. La speranza che questa pausa possa salvare vite umane e la rabbia per il fatto che ci sia voluta così tanta sofferenza per raggiungere anche questo punto fragile. Presto le telecamere si allontaneranno, l’attenzione del mondo si sposterà, ma per noi questa non è la fine. I cessate il fuoco non sono la pace. Sono momenti di quiete in una tempesta senza fine. Finché la giustizia non sarà realizzata, finché la dignità e l’uguaglianza non saranno più che sogni lontani, il ciclo continuerà.

Ciò non vuol dire sminuire il significato del cessate il fuoco per coloro le cui vite sono ogni giorno in bilico. Per molti, significa la differenza tra la vita e la morte. Ma come palestinese, non posso ignorare la verità più profonda: la pace non è solo assenza di guerra. È la presenza della giustizia. È la libertà di vivere senza paura, di ricostruire senza la certezza della distruzione, di sognare senza limiti. Qualunque cosa di meno non è pace. È sopravvivenza. E la sopravvivenza non è sufficiente per persone che meritano molto di più.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Oltre La Linea.

Daniele Bianchi

Daniele Bianchi, nativo di Roma, è il creatore del noto sito di informazione Oltre la Linea. Appassionato di giornalismo e di eventi mondiali, nel 2010 Daniele ha dato vita a questo progetto direttamente da una piccola stanza del suo appartamento con lo scopo di creare uno spazio dedicato alla libera espressione di idee e riflessioni. La sua mission era semplice e diretta: cercare di capire e far comprendere agli altri ciò che sta effettivamente succedendo nel mondo. Oltre alla sua attività di giornalista e scrittore, Daniele investe costantemente nell'arricchimento della sua squadra, coinvolgendo professionisti con le stesse passioni e interessi.