Ai palestinesi viene imposto un nuovo ordine. Come lo affrontiamo?

Daniele Bianchi

Ai palestinesi viene imposto un nuovo ordine. Come lo affrontiamo?

Ci sono due conversazioni in corso sulla scia dell’ultimo cessate il fuoco, che ha portato una fragile pausa nella carneficina a Gaza: una tranquilla, pragmatica e regionale; l’altro, forte, morale e globale. Il primo si svolge a porte chiuse, tra diplomatici, servizi segreti e veterani politici del Medio Oriente. Il secondo riempie le nostre linee temporali, animato da indignazione e solidarietà – l’unica risposta umana decente all’orrore. Il primo delinea una nuova mappa del potere, mentre il secondo parla di tradimento e sfiducia.

Se si ascolta attentamente, dalle capitali regionali emerge una conclusione sorprendente: la guerra a Gaza è finita – non solo militarmente, ma come paradigma politico. Agli occhi di chi gestisce l’amministrazione statale, l’accordo segna un punto di non ritorno. Ciò che si sta svolgendo non è una tregua; è un riordino. La catastrofe di Gaza ha innescato una ricalibrazione che si diffonderà ben oltre i suoi confini, raggiungendo Israele in profondità, rimodellando la politica palestinese e ridefinendo il significato della stabilità regionale negli anni a venire.

In questo nuovo calcolo, Hamas – e in effetti l’intero progetto dell’Islam politico, insieme alla maggior parte degli attori non statali – si trova ad affrontare l’esclusione dalla politica formale. Le classi dominanti della regione, recentemente allineate attorno al perseguimento della stabilità, del commercio e della modernizzazione controllata, ora considerano tali movimenti come reliquie del passato e come agenti di caos. Un consenso crescente sostiene che tutti questi attori debbano essere contenuti o sradicati.

La stessa logica di controllo si estenderà alla Cisgiordania, semplicemente perché l’ordine regionale emergente privilegia la governabilità sopra ogni altra cosa. Il piano arabo prevede che gli stati arabi, affiancati da selezionate potenze islamiche e internazionali, intervengano per porre la Cisgiordania sotto supervisione temporanea – amministrativa, finanziaria e di sicurezza – aprendo la strada a una transizione gestita.

All’Autorità Palestinese verrà offerta quella che potrebbe essere la sua ultima opportunità di riforma – un processo che sarà supervisionato da un team di tecnocrati indipendenti incaricati di ristrutturare le istituzioni, governare Gaza e preparare il terreno per le elezioni. Se l’Autorità Palestinese dovesse resistere a questa ristrutturazione, rischierebbe l’isolamento e l’insolvenza.

Molti vedranno questo come un tentativo non di riforma ma di cooptazione – certamente la logica di coloro che guidano questo processo non è l’idealismo democratico. Cercano di garantire la piazza palestinese attraverso una leadership che possa contenere il malcontento e negoziare in termini prevedibili. I palestinesi non hanno monarchi o dinastie e, in assenza di tali strutture, le urne rimangono l’unico strumento praticabile per sostenere la legittimità interna, anche se nata da calcoli esterni.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, a lungo svuotata, potrebbe presto diventare poco più di un ombrello simbolico, una sede cerimoniale per i partiti di “liberazione”. Nell’ordine regionale emergente, rischia di essere vista come una struttura sopravvissuta al suo momento politico, la cui lotta si riduce a dichiarazioni, appelli e alla ricerca di fondi da parte dei donatori. Coloro che desiderano rimanere politicamente rilevanti dovranno ricostituirsi – tenendo presente il nuovo ordine – come partiti civili privati ​​della loro etica rivoluzionaria.

Questi sono i contorni di ciò che molti negli ambienti politici ora considerano inevitabile. È una visione che pochi descrivono apertamente, eppure viene tranquillamente abbracciata con crescente fiducia da Amman al Cairo, da Riyadh alle principali capitali occidentali.

Ma qui sta il divario. Mentre gli addetti ai lavori parlano il linguaggio dei sistemi, della supervisione e dell’”ordine”, molti in tutto il mondo si ritraggono da ciò che vedono come calcolo cinico e cooptazione: una riorganizzazione del potere privata della giustizia, della responsabilità o di una visione onesta. Gli attivisti e i movimenti di solidarietà vedono queste manovre non come un riordino ma come un tradimento. Non possono fidarsi di Israele o degli Stati Uniti, né possono fidarsi delle intenzioni dei governi regionali che sembrano essersi allineati con il denaro e il potere. E hanno ragione ad essere sospettosi.

Eppure, tra l’ingenuità e il cinismo, deve esserci uno spazio per il realismo: non il realismo della rassegnazione, ma della consapevolezza. Ciò che sta accadendo ora non è il compimento della giustizia ma l’emergere di una nuova struttura che definirà ciò che la giustizia può o non può raggiungere. Ignorarlo significa perdere ancora una volta il libero arbitrio.

Il terremoto di Gaza ha cambiato la grammatica del conflitto. Il potere israeliano, per quanto brutale, non è più assoluto. La politica regionale sta cambiando. Si sta scrivendo un nuovo ordine – e coloro che desiderano rimanerne attori devono impararne il vocabolario. Altrimenti rischiano di diventare note a piè di pagina, ricordate solo per il loro rifiuto di adattarsi al mondo mentre si rifaceva davanti ai loro occhi.

A mio avviso, entrambe le realtà – quella pragmatica e quella morale – si stanno ora svolgendo fianco a fianco, le loro correnti si intrecciano, si scontrano e avanzano attraverso tutte le loro contraddizioni. Accanto a questa divisione corre un secondo asse che si interseca: da un lato, l’inarrestabile progetto espansionista di Israele continua a sfidare ed erodere ogni quadro emergente di pace, giustizia o ordine. L’altro, definito dai calcoli transazionali delle potenze regionali – ciascuna, a vari livelli, legata e in grado di influenzare gli Stati Uniti.

Nel breve termine, la collisione di queste correnti è destinata a produrre turbolenze. Ma in una prospettiva più lunga, poiché l’attenzione di Washington sarà invariabilmente costretta a spostarsi verso Cina e Russia, e mentre il sentimento pubblico occidentale si rivolge decisamente contro l’impunità di Israele e la logica coloniale che ne è alla base, è difficile immaginare come la seconda corrente, i pragmatisti regionali, non prevarrà alla fine, forse prima del previsto.

Nel frattempo, i movimenti di solidarietà continueranno a parlare nel registro dei valori – dei diritti, della memoria e della legge morale che insiste ancora sulla giustizia in un’epoca di opportunità. La loro voce resta indispensabile: è la coscienza a ricordare ciò che la politica troppo spesso dimentica. L’arco della storia non si piegherà da solo verso la giustizia; deve essere trascinato lì da coloro che rifiutano l’amnesia, che non barattano i valori con il conforto.

Per i palestinesi della diaspora e per l’opinione pubblica internazionale mossa dalla solidarietà, il lavoro da fare è chiaro. Devono resistere al conforto cullante di gesti pacificatori che sicuramente si moltiplicheranno: riconoscimenti, risoluzioni, promesse di ricostruzione. Accettateli con grazia, ma non confondeteli con la trasformazione.

La spinta verso cambiamenti tangibili sul campo e il perseguimento di responsabilità devono rimanere incessanti. Gli architetti e gli esecutori del genocidio di Gaza dovranno un giorno presentarsi davanti alla legge, non per vendetta, ma per ridare significato alla giustizia stessa. Solo attraverso tale perseveranza la coscienza può rimanere una forza politica e la lotta per la Palestina – per la dignità, l’uguaglianza e la verità – può continuare a definire non solo il destino di un popolo, ma il carattere morale del nostro tempo.

L’altro compito più difficile è quello troppo spesso lasciato incustodito: la costruzione di una nuova leadership politica sul campo. Ora c’è un divario: stretto, incerto, ma reale. Non è facile affrontarlo, ma è necessario coglierlo.

La prossima generazione deve capire che testimoniare, protestare o commentare dai margini non sarà più sufficiente. Nessuno estenderà un invito a guidare; dovranno rivendicare quello spazio attraverso l’iniziativa, la chiarezza e il duro lavoro di organizzazione.

Mentre i palestinesi ritornano al punto zero della politica, coloro che desiderano vedere un nuovo tipo di leadership devono impegnarsi direttamente nella definizione delle politiche e nel contribuire a formare e finanziare i movimenti che possono portare avanti una nazione.

Perché solo attraverso l’ascesa di nuove forze politiche e di un linguaggio capace di parlare sia alle strade che ai palazzi del potere, i palestinesi potranno rivendicare la loro voce in questo nuovo capitolo in corso.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Oltre La Linea.

Daniele Bianchi

Daniele Bianchi, nativo di Roma, è il creatore del noto sito di informazione Oltre la Linea. Appassionato di giornalismo e di eventi mondiali, nel 2010 Daniele ha dato vita a questo progetto direttamente da una piccola stanza del suo appartamento con lo scopo di creare uno spazio dedicato alla libera espressione di idee e riflessioni. La sua mission era semplice e diretta: cercare di capire e far comprendere agli altri ciò che sta effettivamente succedendo nel mondo. Oltre alla sua attività di giornalista e scrittore, Daniele investe costantemente nell'arricchimento della sua squadra, coinvolgendo professionisti con le stesse passioni e interessi.