Tentato strangolamento, GIP scarcera immigrato. Non era la Russia lo “Stato medievale”?

A creare scandalo, in queste ore, è la notizia della decisione del GIP di Firenze di scarcerare Harwinder Singh, il cittadino indiano di 29 anni che, nella notte tra il 21 e il 22 febbraio, ha aggredito, quasi strangolando, una ragazza di 23 anni, dipendente di un pub situato alla periferia del capoluogo toscano.

La motivazione? “Le mise un laccio intorno al collo ma non cercò in alcun modo lo stupro”. Ora, viene da chiedersi; dato per scontato il caso che non volesse stuprarla, lo stringere forte un laccio intorno al collo, in un qualsiasi altro Paese, non è considerato tentato omicidio?

E dato che quest’ultimo prevede, come abbiamo visto in tanti altri casi di cronaca, l’immediata custodia cautelare, come mai non è avvenuta considerando anche che il soggetto in questione è visibilmente disturbato quindi potrebbe facilmente reiterare il reato su altre povere vittime? Misteri.

Una parziale spiegazione ce la dà la ridicola tesi difensivista da lui formulata, secondo la quale “le dichiarazioni del potenziale stupratore in questione siano state fatte sotto costrizione delle Forze dell’Ordine non essendo in grado di spiaccicare una parola di italiano nonostante viva in Italia da 6 anni”.

“Suggestiva”, ma assai poco credibile nei fatti in quanto il soggetto in questione non presenta assolutamente segni di violenze o ecchimosi. Un tentativo, quanto più, di salvare la faccia gettando fango sul loro operato e contribuendo a diffondere l’immagine malsana del poliziotto “cattivo”. Conosciamo bene questa cosa, basti ricordare il caso, tra i tanti, dei presunti maltrattamenti nei confronti di un bambino a Cittadella nel marzo del 2014.

In quell’occasione il nucleo della polizia di Padova intervenne con grande professionalità per eseguire una sentenza e venne accusato ingiustamente, diventando oggetto di un ignobile linciaggio mediatico. Successivamente, più approfondite indagini hanno stabilito l’assoluta correttezza dell’intervento ma, come accade spesso in questi casi, la notizia è passata in sordina.

Ci si erge a paladini nella lotta (giustissima e sacrosanta) contro i “femminicidi”, ci si indigna ad intermittenza, ma l’idea che si dà all’opinione pubblica è quella che si debba aspettare per forza e sempre la vittima o la strage affinché si agisca con contromisure efficaci e severe. Possibile che non si possa costruire un percorso di sostegno alle persone vittime di tali violenze assicurando loro una vita sicura e, possibilmente, lontana dai loro aguzzini?

L’ Italia è quel Paese dove le violenze reiterate sul coniuge o sul partner si puniscono, nella stragrande maggioranza dei casi, con l’obbligo da parte di chi le ha esercitate di mantenere una debita distanza dalla vittima. Obbligo, poi, che puntualmente viene violato data la sua inconsistenza e che, nel 90% dei casi, porta a conseguenze ben più gravi, come la morte della stessa o danni permanenti, sia di carattere fisico che psicologico.

Sembrava ieri quando, alte nel cielo, si alzavano le grida di indignazione nei confronti della legge approvata in Russia che variava la pena da scontare in base alla gravità delle violenze domestiche. “Paese incivile, barbaro, medievale” erano gli insulti più comuni. Da che pulpito vien la predica. Non sembra che il Paese Italia, appartentente al civilissimo e superiore Occidente, con questa quanto meno dubbia decisione, abbia fatto una figura migliore.

(di Davide Pellegrino)