Tutti i pasticci delle leggi elettorali
La sentenza della Corte Costituzionale del 25 gennaio scorso ha aggiunto un nuovo capitolo alla tormentata vicenda della riforma elettorale. I giudici della Consulta, chiamati a pronunciarsi su una serie di ricorsi presentati da ben cinque tribunali (Messina, Torino, Perugia, Trieste e Genova), hanno dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della legge n.52 del 6/5/2015, meglio conosciuta come Italicum, secondo una consolidata prassi latineggiante nel battezzare le leggi elettorali. Questa decisione, appena due mesi dopo la bocciatura della riforma del Senato nel referendum dello scorso dicembre, sembrerebbe sugellare la sconfitta politica definitiva di Matteo Renzi, che molto aveva investito nel buon esito di questa legislatura “costituente”. Procediamo, però, per gradi e proviamo a ricostruire l’antecedente.
Nel gennaio del 2014 c’era già stata una sentenza, quella che aveva dichiarato incostituzionale la legge allora vigente, il Porcellum, già usata nelle elezioni politiche del 2006, del 2008 e le ultime, quelle del 2013, che paradossalmente avevano portato, dopo la parentesi del governo Letta, lo stesso Renzi a diventare presidente del Consiglio.
Nello specifico, la Consulta aveva accettato entrambi i ricorsi mossi da un pool di avvocati, il Coordinamento per la democrazia costituzionale – nelle cui fila, tuttavia, trovavano posto anche numerosi politici e parlamentari di Sel e M5S – capeggiati dall’avvocato Felice Besostri (promotore anche dei ricorsi che hanno affondato ora l’Italicum): il premio di maggioranza del Porcellum (54% dei seggi, pari alla Camera a 340 seggi su 630) veniva dichiarato incostituzionale, in quanto assegnato alla lista o coalizione con maggioranza relativa, indipendentemente dal raggiungimento di una soglia minima per accedervi; bocciate anche le liste bloccate, cioè l’impossibilità da parte degli elettori di esprimere una preferenza, che trasformava il voto nell’accettazione in blocco di una lunghissima serie di candidati scelti dalle segreterie dei partiti.
Del Porcellum (ribattezzato per l’occasione Consultellum) venivano confermate solo le soglie di sbarramento (per le liste che si presentavano da sole 4% alla Camera e 8% al Senato, per le coalizioni rispettivamente 10% e 20%, per le liste interne alle coalizioni 2% e 3%), con la novità dell’introduzione della preferenza unica nell’elezione di entrambe le Camere. Fatta salva la possibilità di approvare una nuova legge da parte del Parlamento, purché conforme alle prescrizioni della sentenza, la legge delineata dalla Consulta era immediatamente applicabile.
È in questo clima che aveva avuto inizio nel marzo del 2014 l’iter travagliato della nuova legge elettorale, ribattezzata Italicum dallo stesso Renzi: una serie di rimbalzi tra Camera e Senato; la fine del Patto del Nazareno e la frattura con Forza Italia; lo stralcio della parte relativa all’elezione del Senato, in vista della contemporanea approvazione della riforma costituzionale che avrebbe trasformato quel ramo del Parlamento in un’assemblea non eletta più direttamente, rendendo così la nuova legge valida solo per la Camera dei Deputati; la fronda interna al Partito Democratico. La riforma veniva approvata il 4 maggio 2015 in via definitiva grazie ad un voto di fiducia.
La versione finale, quella sulla quale si è pronunciata ora la Consulta, consisteva in un sistema proporzionale corretto da: un premio di maggioranza di 340 seggi alla lista (e non alla coalizione) che avesse raggiunto almeno il 40% dei voti, ed eventuale ballottaggio, in caso contrario, tra le due liste più votate; i restanti seggi attribuiti alle opposizioni con uno sbarramento nazionale del 3%; capilista bloccati, con possibilità di candidatura plurima e successiva scelta del collegio in cui essere eletti; doppio voto di preferenza; suddivisione del territorio nazionale in 100 collegi plurinominali, disegnati da un’apposita commissione e composti da circa 600 mila elettori l’uno; su questi 100 collegi si sarebbero proiettati con uno speciale algoritmo i risultati nazionali delle liste che avessero superato lo sbarramento, e ciascun collegio avrebbe eletto dai 3 ai 9 deputati; “quote rosa” nell’esercizio della preferenza, nella scelta dei candidati nei collegi, e nell’elenco progressivo dei candidati esposto fuori dai seggi, che doveva alternare uomini e donne.
Nel corso del 2015 sono stati presentati i primi ricorsi al tribunale di Messina da parte del Comitato per la Democrazia Costituzionale guidato da Besostri, cui sono seguiti altri appelli in diversi tribunali italiani. Tra tutte queste istanze, circa una decina di motivi di incostituzionalità sono stati ammessi dai giudici e rinviati alla Corte Costituzionale, in merito ai quali, come sappiamo, pochi giorni fa si è finalmente espressa: bocciato il ricorso relativo all’incostituzionalità dell’Italicum causata dalla modalità di approvazione delle legge, in quanto quella elettorale non risulta essere, nei regolamenti parlamentari, tra le materie sulle quali non sia possibile porre la questione di fiducia; bocciato il ricorso relativo al premio di maggioranza, poiché giudicato diversamente dagli avvocati del Comitato “né irragionevole (è prevista soglia minima per accedervi), né in violazione del principio di rappresentanza territoriale e rappresentanza democratica”.
Accolti, invece, i ricorsi che riguardano il ballottaggio, dichiarato incostituzionale, e i capilista plurieletti, che in conformità al Testo unico delle leggi elettorali vedranno scelto per sorteggio il collegio in cui essere eletti. Ancora una volta la Consulta dichiara la legge elettorale (o quello che ne resta) immediatamente applicabile, fatta salva la prerogativa del Parlamento di elaborarne una nuova, che tenga tuttavia conto della sua sentenza.
È a questo punto possibile fare una serie di valutazioni.
1) La Corte Costituzionale, nell’esercizio delle sue funzioni in un contesto di vuoto di potere e iniziativa politica, ha di fatto legiferato, tanto un anno fa nel caso del Porcellum, diventato Consultellum, quanto ora con l’Italicum, che a ragione potrebbe essere ribattezzato Consultellum 2.0; lo ha fatto tagliando determinate parti della legge (il ballottaggio in particolare), quasi modellandola in modo lucido al sistema elettorale spagnolo (già in passato preso in considerazione). Sono sorprendenti le affinità: proporzionale con sbarramento al 3% (nel caso spagnolo a livello di collegio e non nazionale); collegi plurinominali numerosi, molto piccoli, e che eleggono pochi deputati (eccezion fatta per Madrid e Barcellona), così da rinforzare l’effetto dello sbarramento e favorire i partiti maggiori; liste di candidati corte e bloccate in Spagna, rispetto alla possibilità di duplice preferenza del Consultellum 2.0, ma con la non trascurabile presenza di capilista bloccati. Resta nel caso italiano il premio di maggioranza; tuttavia, nella decisione della Consulta deve aver operato la consapevolezza che la soglia minima del 40% per accedervi è difficilmente raggiungibile per una singola lista, tanto che la norma, pur prevista in teoria, si autoesclude nella sostanza.
2) Il Comitato per la Democrazia Costituzionale è stato uno dei protagonisti indiscussi di questa vicenda. Definito dall’avvocato Felice Besostri, che l’ha coordinato, come un gruppo di “professionisti liberi, autonomi, democratici e progressisti”, non a caso dalle pagine di quella tribuna “libera” e “autonoma” che è Il Manifesto (Felice Carlo Besostri, “Adesso diciamo Sì all’attuazione della Costituzione”, 10 dicembre 2016), tale comitato sembra del tutto contiguo politicamente alla minoranza del PD, a SEL e a parte del M5S. Lo stesso mondo ideologico, insomma, di Gustavo Zagrebelsky, di Stefano Rodotà e di tutti quei giuristi “democratici” e “progressisti” che hanno fatto dell’inviolabilità della nostra Costituzione il loro vessillo e la loro ragion di vita. Comunque si possa pensare a proposito del referendum del 4 dicembre, è, infatti, a questo gruppo intellettuale di pressione che appartiene la responsabilità storica e politica di far fallire ogni doveroso e necessario tentativo di riformare la nostra Costituzione, dipingendolo come autoritario, liberticida, se non addirittura apertamente fascista, e di usare tutti i mezzi di informazione possibili per intimorire e deviare in tal senso l’opinione pubblica italiana. Che la riforma sia quella “integrale” di Berlusconi del 2005, o quella limitata al Senato del recente disegno Renzi-Boschi, poco cambia, che si sia stati favorevoli o meno alla riforma, il dato storico resta a prescindere.
3) Fallito il referendum, rientra pienamente in gioco il Senato, eletto con il Consultellum, il vecchio Porcellum emendato dalla Consulta: proporzionale con sbarramento regionale all’8% per le coalizioni e al 3% per le liste interne alle coalizioni, senza premio di maggioranza, e con preferenza unica. Mentre per la Camera abbiamo un Consultellum 2.0 nuovo di zecca. Due sistemi elettorali perfettamente applicabili e, sulla carta, potenzialmente efficaci. Il richiamo del Quirinale a cercare ora un’armonizzazione dei due sistemi sembra decisamente fuori luogo. Per un motivo di merito, in quanto lo sbarramento molto alto del Senato bilancia il teorico, quanto improbabile, premio di maggioranza previsto alla Camera; e per un motivo politico, in quanto non ci è dato sapere la ragione per la quale i partiti potrebbero trovare un accordo per una nuova legge, se non sono stati in grado di farlo sinora. Del resto, un possibile ritorno al Mattarellum, come insinuano le voci di corridoio, sembra una cosa ridicola, dato che parliamo di un sistema, quello che prende il nome proprio dall’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella e che è stato vigente tra il 1994 e il 2005, che ha fallito due volte su un totale di tre elezioni, negando una maggioranza stabile nel 1994 a Berlusconi, nel 1996 a Prodi.
4) Risulta difficile pensare che Renzi non avesse previsto la possibilità del fallimento tanto dell’Italicum quanto del referendum costituzionale, senza un piano B che gli permettesse di continuare ad operare in una situazione di oggettiva difficoltà. D’altronde, l’isterica esultanza del centro destra, o di quel che ne resta, sembra davvero fuori luogo. Se il PD naviga in acque difficili, sarebbe interessante sapere da Salvini, dalla Meloni, dallo stesso Berlusconi, felici di essersi sbarazzati di Renzi, per poi essersi ritrovati un governo a guida Gentiloni, così ansiosi a parole di andare ad elezioni il prima possibile quale sia il leader del centrodestra e quale il suo programma; e prima ancora, cosa più importante, se esiste un centrodestra italiano, con quali riferimenti, quali finalità. Quanto al M5S, è difficile esprimersi, poiché, al di là della volontà di Grillo di tornare subito al voto, il suo ruolo e la sua strategia si condensano in due parole: non pervenute.
Come ultima osservazione, sarebbe necessario sottolineare come la legge elettorale sia non un rimedio, né la soluzione all’atavica crisi della politica italiana, bensì l’ultimo tassello da inserire in un mosaico. Se la Corte Costituzionale ha veramente voluto operare nel tentativo di importare un buon modello come quello spagnolo, non ci si dovrebbe dimenticare che ogni tentativo di riforma sarà fallimentare a Costituzione invariata. Solo intervenendo sul modello istituzionale, con una differenziazione delle Camere, con una semplificazione dell’iter di formazione delle leggi, e soprattutto con nuove prerogative per il presidente del Consiglio (nella direzione, conforme alla storia recente, più del premierato forte, che del presidenzialismo da sempre caro al blocco della destra nazionale), si potrebbe uscire da un disastro che continua a perpetrarsi da ormai decenni.
(di Daniele Dalla Pozza)