Trumpismo, storicizzazione di un fenomeno ancora in atto

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Le elezioni presidenziali Usa dello scorso novembre si sono lungamente protratte tra ricorsi e manifestazioni di protesta rendendo a tutti evidente una cosa: con Donald Trump e col trumpismo bisognerà fare ancora i conti.

 

Gli errori dei mass-media sul trumpismo

Mentre case sondaggistiche e media internazionali si affrettavano a dare per certa un’eclatante sconfitta dell’inquilino della Casa Bianca i più attenti analisti si mostravano decisamente più cauti nel dare per spacciato Trump e il movimento formatosi intorno a lui.

Come descritto da Gherardo Marenghi sulle pagine de Il Guastatore “il populismo trumpiano mette insieme elementi di nazionalismo, di spiritualismo confessionale di matrice evangelica, di conservatorismo sulle problematiche concernenti i diritti civili, di liberalismo in campo economico”. Un fenomeno del tutto nuovo in quella parte del globo e con cui prima il Partito repubblicano e poi il suo competitors, il Partito democratico, dovranno ancora confrontarsi.

Se Daniele Capezzone, nella prefazione al libro di Stefano Graziosi e Daniele Scalea “Trump contro tutti. L’America e l’Occidente al bivio”, già prefigurava un martellante tam-tam mediatico all’indomani della vittoria del duo Biden-Harris volto a “proclamare la fine di una stagione, il declino dei sovranisti e populisti, il ritorno alla normalità” alcuni incontrovertibili dati indicano l’opposto. Dal numero di voti reali ricevuti (il più alto in assoluto per un presidente uscente) ai distacchi minimi negli Stati storicamente fedeli all’asinello che hanno permesso a Joe Biden di prevalere passando per l’aumento del consenso tra le minoranze (principalmente quella ispanica).
E’ ancora il collaboratore del quotidiano La Verità a riconoscere come “una volta battuto Trump, non scompariranno i suoi elettori”.

Covid-19 e voto postale

La sconfitta del presidente uscente si deve, d’altronde, alla pandemia di covid-19 e ancor più alle ricadute che questa ha avuto sul versante economico, tema chiave sul quale il magnate newyorkese aveva costruito la cavalcata trionfale alle primarie repubblicane e nella sfida contro la democratica Hillary Clinton poco più di quattro anni fa.
Il docente presso l’Università Cattolica di Milano Andrew Spannaus, tra i pochi a prevedere in anticipo le tesi determinanti per il verificarsi della vittoria elettorale in grado di aprire le porte della Casa Bianca a Trump nel 2016, nel suo recente “L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro” edito da Mimesis per la collana Il caffè dei filosofi, aveva già individuato nel voto postale “un aumento di distorsioni e serrate battaglie legali sull’esito della corsa alla presidenza”.

Trumpismo, atlantismo o opportunismo?

Di diverso ordine è il modo in cui Trump e il movimento creatosi intorno a lui sono stati percepiti da omologhi e non nell’intero Vecchio Continente. Proprio in questo caso è bene notare come alcune forze politiche, lungi dall’intessere relazioni privilegiate con gli Usa solo per via dell’affinità ideal-programmatica con l’ormai ex presidente, finiscano con l’augurarsi di restare sempre amici e partner (ma sarebbe meglio dire vassalli) degli Stati Uniti. Un atlantismo distante dal concetto, propugnato sempre più spesso, di sovranismo e sovranità nazionale.Come sottolineato sia da Daniele Capezzone (“Gli Stati Uniti sono e resteranno amici chiunque li guidi pro tempore”) sia dall’uomo forte della Lega Giancarlo Giorgetti nella postfazione al testo di Grazioli e Scalea quando scrive “malgrado qualsiasi simpatia od antipatia si possa nutrire nei confronti di alcuno dei due protagonisti del duello del 3 novembre, l’Italia non potrà voltare le spalle al suo principale alleato”.

Una biforcazione già vissuta in sede continentale con i diktat dell’Unione Europea e ora ripropostasi anche in casa propria con la decisione sulla convergenza o meno al governo Draghi.

(di Luca Lezzi)

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