La politica di Trump in Medio Oriente manca di realismo. Parla Paul Pillar

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Il realismo in politica estera riconosce che tutte le nazioni hanno alcuni interessi che coincidono, e altri che contrastano, quelli di un altro paese. Una politica estera americana basata sul realismo vedrebbe tutti i paesi come potenziali obiettivi da agganciare e influenzare affinché le loro politiche siano più congeniali all’interesse nazionale americani. Alcuni paesi ovviamente hanno più cose in comune con gli Stati Uniti di altri, ma nella prospettiva realista questa è più una differenza di gradi ed enfasi che una rigida divisione tra amici e nemici.

Una politica estera non realista può basarsi su questa rigida divisione, offrendo nient’altro che confronto verso coloro che sono etichettati come nemici e generosi accomodamenti verso coloro che sono etichettati come amici. Il difetto di questa politica è che le opportunità di cooperazione reciprocamente vantaggiosa con i nemici vengono perse e l’inesorabile ostilità diretta verso di loro suscita – come una delle reazioni più naturali di tutte le reazioni umane – ostilità, risentimento e sfiducia in cambio. Allo stesso tempo, a coloro che sono considerati amici viene data carta bianca per indulgere in comportamenti distruttivi, senza alcun serio tentativo di guidarli in una direzione che è meno dannosa e più in conformità con gli interessi degli Stati Uniti.

La politica dell’amministrazione Trump verso il Medio Oriente è uno dei massimi esempi di questo tipo di approccio non realista. La sua politica si basa su una divisione estremamente rigida tra, da un lato, l’arci-nemico Iran (e coloro che hanno una relazione positiva con esso, come la Siria) e, dall’altra, i rivali regionali dell’Iran come Israele e alcuni dei maggiori stati arabi sunniti. Verso i nemici designati, la politica americana è consistita soltanto in crescente ostilità. Verso i presunti amici, invece, la politica americana è stata così accomodante che ha fornito scuse e coperture politiche verso comportamenti che il resto del mondo considera discutibili o perfino immorali.

Il resto della politica estera dell’amministrazione Trump non esibisce niente di simile a questa sorta di estremo manicheismo. Qualunque tentativo di inasprire il confronto con la Russia (per esempio, nel caso del ritiro del trattato missilistico INF) è stata compensata dai tentativi privati di Trump per accattivarsi le simpatie del presidente russo Vladimir Putin. Le politiche di Trump verso l’Europa non rendono chiaro chi siano i nemici e chi gli amici, perfino all’interno dell’Alleanza Atlantica. Anche la politica verso la Corea del Nord ha oscillato tra “fuoco e furia” da una parte, e “lettere d’amore” dall’altra. Solo nel Medio Oriente la politica di Trump ha decretato una linea netta tra coloro che lui considera la radice di ogni male e coloro che sembrano incapaci di compiere ogni male.

IL COMPORTAMENTO IRANIANO

Gli iraniani non hanno ancora risposto alle ostilità americane perché sperano in un cambio di regime a Washington nel gennaio 2021 e stanno tenendo duro fino ad allora.
Non c’è stata certamente alcuna risposta positiva, nelle attività regionali iraniane o nella volontà di tornare al tavolo dei negoziati, alla campagna di “massima pressione” dell’amministrazione. Il principale cambiamento finora è stato politicamente all’interno di Teheran, con gli intransigenti iraniani che hanno guadagnato influenza dopo che gli Stati Uniti hanno rinnegato l’anno scorso l’accordo nucleare, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). I “falchi” iraniani stanno godendo un momento di popolarità e stanno dicendo “ve l’avevamo detto” riguardo i rischi di una cooperazione con gli americani. Il principale negoziatore iraniano nel JCPOA, il ministro degli esteri Javad Zarif, è di nuovo al suo posto dopo avere offerto le dimissioni, ma il fatto che sia ricorso a un tale stratagemma riflette come la sua posizione, e quella del presidente Hassan Rouhani, si sia indebolita a vantaggio dei “falchi”.

Il malinteso alla base del comportamento dell’amministrazione Trump è quello per cui l’Iran sarebbe naturalmente predisposto a compiere comportamenti malvagi, e che questa cosa sia immutabile. Il commento di Mike Pompeo riguardo le dimissioni di Zarif, secondo cui “Zarif e Rouhani sono solo il volto buono di una mafia religiosa corrotta”, è stato uno dei più puerili e imbarazzanti che un segretario di stato americano abbia mai fatto su un governo straniero. Il commento trascura l’esistenza di una vera competizione politica a Teheran, come dimostra lo stesso episodio di dimissioni di Zarif. Trascura inoltre che molto di quello che l’Iran fa è in risposta a ciò che gli altri stati, soprattutto gli USA, fanno ad esso.

Questa dinamica di azione e reazione precede l’amministrazione Trump. Infatti, molte delle azioni dell’Iran degli ultimi quattro decenni sono state in reazione alle azioni di altri stati. E gli sforzi dell’Iran per cooperare con gli Stati Uniti sono ripetutamente stati visti con ostilità. L’amministrazione Clinton ha annullato il contratto stipulato dall’allora presidente Rafsanjani con la compagnia petrolifera americana Conoco, che era inteso come un gesto di buona volontà, e poi ha attuato la politica di “doppio contenimento”. La cooperazione iraniana post 11 settembre con gli Stati Uniti per la costruzione di un nuovo governo in Afghanistan è subito seguita alla dichiarazione di George W. Bush che inseriva il paese all’interno del cosiddetto “asse del male”. Ciò che oggi molti vedono come “nefasto” o “destabilizzante” sono delle risposte dirette a tali ostilità. L’esclusione americana dell’Iran dalla conferenza di pace di Madrid del 1991 ha spinto l’Iran a fornire aiuto ai gruppi di resistenza palestinesi.

AMICI DISTRUTTIVI

Gli effetti del comportamento degli “amici” non sono iniziati con Trump, anche se con l’attuale amministrazione hanno preso nuove pieghe. Molte amministrazioni americane avevano l’abitudine di ignorare o minimizzare comportamenti discutibili, se questi erano compiuti dai cosiddetti “amici” o “alleati”.

L’attuale relazione americana con uno di questi partner, l’Egitto, è una conseguenza del sostegno di Washington a Anwar Sadat negli anni 70 per fare pace con Israele. Oggi, il presidente egiziano al-Sisi è molto più brutale dei suoi predecessori. Secondo una recente analisi, al-Sisi “sta spostando l’Egitto verso il totalitarismo, più di quanto abbia fatto l’uomo forte Hosni Mubarak, generando instabilità in una regione che ne ha già vissuta molta”.

Il comportamento di un altro degli “amici” preferiti, l’Arabia Saudita, negli ultimi anni è degenerato in una guerra distruttiva in Yemen, nei tentativi di costringere il primo ministro del Libano a causare una crisi di governo, e nell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. Le politiche americane hanno spinto il leader de facto Mohammed Bin Salman (MbS) a credere di poterla passare liscia. Trump ha spinto questo comportamento accomodante a un nuovo livello, offrendo a MbS copertura politica per l’omicidio Khashoggi.

Israele è l’”amico” mediorientale che più di ogni altro è stato coccolato – una storia che inizia molto prima di Trump, ma che con la sua amministrazione ha raggiunto nuovi livelli di accondiscendenza: accelerazione della costruzione di insediamenti nella West Bank, uso di forza letale contro i manifestanti a Gaza che potrebbe costituire crimine di guerra e, di recente, l’inclusione nel governo di un gruppo considerato dagli Stati Uniti come terroristico.

Il Medio Oriente ha molte politiche intransigenti e molti “falchi”; queste politiche prendono la forma di ostilità verso gli altri stati e di oppressione dei regimi verso le popolazioni a loro soggette. La regione continuerà ad avere tali politiche a prescindere da cosa faranno gli Stati Uniti. Una politica realistica verso la regione riconoscerebbe ciò usando, allo stesso tempo, l’influenza americana per cercare di rendere il Medio Oriente un posto meno volatile, meno oppressivo, meno conflittuale. Sfortunatamente, l’attuale approccio di dividere i buoni dai cattivi sta rendendo la regione più difficile e più conflittuale di quanto, altrimenti, sarebbe.

(di Paul R. Pillar, da LobeLog – traduzione di Federico Bezzi)

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