Populisti e anti-populisti: chi soffia davvero sulla rabbia sociale?

Populisti e anti-populisti: chi soffia davvero sulla rabbia sociale?

Uno degli argomenti preferiti degli oppositori al movimento populista o, nello specifico, a formazioni come la Lega e a personaggi politici come Matteo Salvini è la questione “odio sociale” e “rabbia”.

Secondo questa narrazione le forze populiste, a vario grado, farebbero leva su questi sentimenti nel popolo per acquisire consensi in chiave politica ed elettorale. Questo tema viene ripetuto in maniera continua a mo’ di “mantra propagandistico”. Da ciò ne conseguono cose come “i populisti e i sovranisti rappresentano la parte peggiore degli italiani!”, “campagna elettorale permanente!”, “campagna elettorale sull’odio degli italiani!”. Mentre per coloro che contestano le politiche immigrazioniste ci si limita a “sciacalli e produttori di odio sociale!”

Come tutti i leitmotiv ripetuti e mai ben riflettuti si declama una formula senza accorgersi del contenuto di ciò che si dice. Innanzitutto un movimento, un partito o un capo politico fanno delle scelte che possono piacere o non piacere, ma sono scelte “politiche”. Ogni partito si arma di una attività propagandistica, essenza stessa della politica, almeno per come fin ora concepita.

Aprire gli ingressi a chiunque in Italia e il ripetere che è l’unica cosa da poter fare non è forse uno slogan da propaganda demagogica? “Abbiamo la coscienza sporca per aver colonizzato l’Africa!”, “Nessuno è illegale!” “Niente frontiere, niente confini!”, “Italiani razzisti!”, ecc.

Ma poi, secondo questa concezione del problema c’era bisogno dei populisti e di Salvini per attivare la rabbia sociale negli italiani? Da qui viene fuori tutto il distacco dal paese reale che hanno i soggetti in questione.

Per la loro mentalità radical chic, essi concepiscono la realtà come un mondo immaginario legato a stereotipi e fantasticherie ideologiche. E nel loro mondo va tutto bene e i problemi sono sopportabili perché di ordinaria amministrazione. Oppure, come sostengono i più antagonisti di essi, l’unica soluzione è la “rivoluzione”, rossa o anarchica, dove con questi due aggettivi si indicano rivendicazioni da liceali.

Al di là di queste parole roboanti, questa gente non muoverebbe un dito per cambiare lo status quo, altrimenti lo farebbero ora, in maniera “attiva” seppur “critica”. Ma a loro interessa solo cullarsi nel riformismo o nell’antagonismo di facciata, il sistema globalistico in atto offre troppe garanzie a questi elementi per generare qualsiasi “incazzatura” dalle potenzialità realmente “ribelli”.

Altra diceria interessante è che la rabbia presente nel popolo italiano, sia la cartina tornasole del “ritorno del fascismo” in Italia. Anni e anni di storiografia liberale ne hanno prodotte di scemenze, ma derubricare un’esperienza politica come il fascismo ad una questione di “sentimenti” mi sembra davvero il massimo.

Ogni esperienza politica si forgia “anche” di tali sentimenti. Pure il socialismo ha dovuto far leva sulla rabbia “di classe” che in un modo o nell’altro era già presente nel tessuto sociale russo. Anche il liberalismo ha fatto leva su essa per scalzare le ristrettezze verso la libera espressione dell’individuo, tipiche dei sistemi assolutistici o totalitari.

Dire che in Italia alle ultime elezioni hanno vinto gli “ignoranti”, gli “analfabeti funzionali”, i “caproni”, i “razzisti” non è forse testimonianza di una rabbia per tale evento e di un odio verso queste persone? Insultare con tali appellativi, “giorno per giorno” sui social, gli esponenti del governo non è testimonianza di odio? O si è talmente fuori dalla realtà da esser convinti che solo perché si è per la “pace” e per l’“apertura”, allora automaticamente si sta nel giusto?

La politica per i buoni sentimenti, come si dice in gergo “buonismo”, è poi uno degli ultimi prodotti di una certa mentalità “postmoderna”. È espressione di uno Stato e di un individuo non più in grado di prendere una decisione “lucida”, “fredda”, “lungimirante” e non dettata dal “sentire giornaliero”.

Bisognerebbe fare un po’ di ordine mentale e spiegare che i sentimenti di rabbia e di odio, ma più in generale la tendenza alla violenza e alla distruzione, sono prettamente umani, e la capacità di uno Stato ben funzionate sta molto nella giusta canalizzazione e ordinazione di essi.

Viceversa è laddove si fa continua repressione di queste pulsioni, le quali sono linfa vitale stessa dell’individuo quanto di un popolo, che esse si fanno sentire in modo “caotico”, “disordinato” e “disarmonico”.

Pure l’impulso alla distruzione è una parte dell’Io, e nell’individuo è presente eros ma anche thanatos, il principio “conservativo” ma anche quello “distruttivo”, l’“amore” quanto l’“odio”. Pensare di ignorare l’“elemento negativo”, nel senso oggettivo del termine, è un’operazione dannosissima nei riguardi proprio dell’integrità e della completezza della psiche.

Anche per questo si vive nel paradosso di una società che si consacra alla “pace” e al “diritto” ma è costantemente “oppressiva” e “violenta”. Una società dove si rigetta il servizio militare ma si tiranneggia il prossimo. Dove si “esporta la democrazia” negli altri paesi, ma si consente alla criminalità organizzata di controllare intere aree del territorio. Dove ci si scaglia ardentemente contro l’autorità dei genitori e delle istituzioni ma ci si rapporta in maniera isterica nei confronti dei bambini o dei disabili (le violenze in molte scuole materne e centri di assistenza sociale sono all’ordine del giorno).

Il lavoro che si dovrà fare è culturale, ma ancor di più “antropologico”. Il “politicamente corretto”, in realtà, lungi dall’essere un semplice sistema di divieti verbali in difesa di questa o quella minoranza, è un meccanismo “psichico” volto a strutturare nelle menti degli individui tutta una serie di principî e dogmi, quelli del “pensiero unico”, che vanno sradicati e rielaborati uno per uno.

In ultim’analisi dobbiamo mettere in crisi tutto. Anche le cose più ovvie e apparentemente “apprezzabili” hanno bisogno di essere mentalmente “sradicate” e “rielaborate”. È un compito arduo ma fondamentale, che non può essere più posticipato.

(di Roberto Siconolfi)

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