Arditi, pugnale e bombe a mano: due parole con lo scrittore Roberto Roseano

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Sig. Roseano, per quale ragione ha scritto un libro sugli Arditi della Grande Guerra?
Qualche anno fa, prima di iniziare a scrivere il libro “L’ Ardito”, il primo romanzo storico sugli Arditi negli ultimi 60-70 anni, avevo fatto un sondaggio tra amici, parenti e conoscenti. Avevo chiesto “Se dico la parola Arditi cosa ti viene in mente?”.
Nella maggior parte dei casi avevo visto sguardi perplessi e occhi persi nel vuoto. No, mai sentiti.  Arditi?  Mi dispiace, non lo soQualcuno aveva abbozzato una risposta in forma interrogativa. È un cognome? Erano dei barbari? Una popolazione battagliera come gli Unni? Erano dei soldati? Alcuni, non molti in verità, erano certi di avere la risposta giusta: Fascisti!
Nell’ampia schiera di chi non ne sapeva nulla, la risposta più originale è stata quella di un’amica che, dopo essersi concentrata, mi ha detto: «Arditi? Aspetta. Ci sono! Dante Alighieri – Divina Commedia – Girone degli Arditi. In effetti a quei tempi essere arditi era considerato peccaminoso.»
All’estremo opposto, tra i pochi che ne sapevano qualcosa, un amico mi ha sorpreso intonando alcune strofe di uno dei canti più famosi degli ArditiIl risultato, comunque, era stato molto deludente. Mi sono così reso conto che l’Italia ne aveva perduto memoria.
Eppure durante la Grande Guerra erano diventati famosissimi: ammirati, invidiati e celebrati sulle copertine della Domenica del Corriere con le illustrazioni di Beltrame. Inutile dire che erano temutissimi dal nemico. È davvero paradossale che quasi tutti in Italia sappiano chi sono i Marines, ma ben pochi conoscano un’eccellenza italiana in campo militare come gli ArditiSu di loro, purtroppo, non è mai stato girato un film, anche se la trama e i personaggi non mancherebbero. Sui Marines, invece, i film abbondano. Pensate che nella II Guerra Mondiale nei Marines militarono circa 670.000 uomini e circa 20.000 trovarono la morte (pari a circa il 3%). Nella Grande Guerra militarono negli Arditi dai 30 ai 35 mila uomini, con un tributo di sangue molto superiore, dal 10 al 12% (22% durante la battaglia del Solstizio). Queste considerazioni mi hanno convinto dell’opportunità di scrivere un libro.
Dal punto di vista narrativo era una bella opportunità poter trattare un argomento sconosciuto e al tempo stesso era molto stimolante riprendere in mano e riportare alla luce la storia di un corpo d’élite, tanto famoso, ammirato e celebrato all’epoca, ma poi caduto nell’oblio. La forma adottata è stata quella del romanzo storico, che ha l’indubbio pregio di narrare la storia senza annoiare i lettori.

Ci vuole spiegare tecnicamente chi erano gli Arditi?
Erano un corpo speciale del Regio Esercito durante la Grande Guerra. Tecnicamente erano inquadrati nei cosiddetti Reparti d’assalto, formazioni militari create per trovare una soluzione allo stallo della guerra di trincea. Erano truppe di elite formate, inizialmente, da volontari tratti da altri corpi dell’esercito, come la fanteria, i bersaglieri e gli alpini. Perlopiù erano combattenti esperti che avevano dimostrato sprezzo del pericolo e valore in battaglia.
Tuttavia questi volontari dovevano superare un test, un corso molto duro di un paio di settimane che metteva alla prova il loro coraggio e le loro doti fisiche e psichiche. Solo chi superava il corso diventava un Ardito e poteva indossare le mostrine a Fiamme Nere (introdotto da metà agosto 1917) e il distintivo sul braccio (adottato con la circolare n. 455 del luglio 1917): un gladio romano iscritto tra un serto d’alloro e una fronda di quercia e intrecciato al nodo Savoia.

So che l’abbigliamento degli Arditi e le armi in dotazione erano molto particolari. Ce ne vuole parlare?
Il colonnello Giuseppe Bassi, “il padre” degli Arditi, studiò accuratamente ogni dettaglio. L’uniforme doveva distinguerli dagli altri militari, ma al tempo stesso essere funzionale. La giubba era quella dei bersaglieri ciclisti, modello 1910, ma a collo risvoltato e aperto, un’autentica novità per gli eserciti dell’epoca, al fine di permettere una migliore aerazione del corpo.
Le mostrine erano di colore nero a due punte, da cui il termine “Fiamme Nere” con cui vennero spesso indicati gli Arditi. Nei reparti costituiti da bersaglieri vennero mantenute le mostrine cremisi e verdi in quelli alpini. Questi ultimi non rinunciarono al loro tipico copricapo, mentre tutti gli altri portavano il kepì modello 1915, sostituito solo nella tarda primavera 1918 dal fez nero, derivato da quello dei bersaglieri. Ufficiali e sottufficiali, invece, indossavano il berretto modello 1907 riservato ai loro gradi. In combattimento tutti portavano l’elmetto Adrian.
Gli altri elementi del vestiario erano maglione a girocollo in lana a coste o camicia grigio-verde in flanella, con cravatta nera, pantaloni leggeri al ginocchio da alpino o bersagliere ciclista, che rendevano più agile il movimento, fasce mollettiere, spesso sostituite da calzettoni di lana a coste, scarponcini chiodati da alpino, modello 1912.
Per quanto riguarda le armi, gli Arditi dovevano imparare a utilizzare tutte le armi, comprese quelle del nemico, ma le loro armi più tipiche furono il pugnale e la bomba a mano offensiva.
Il pugnale era meno ingombrante della baionetta e ideale nei combattimenti corpo a corpo negli angusti spazi delle trincee. Inoltre consentiva di colpire silenziosamente il nemico. Gli Arditi, comunque, non disdegnarono di dotarsi anche di pugnali personali della propria regione o sottratti al nemico.
L’altra arma tipica, celebrata in tutte le loro canzoni, era la bomba a mano offensiva il petardo sistema Olergon, detto P.O., e il petardo Thévenot di progettazione francese, entrambi di forma cilindrica e peso di 400 grammi. Le schegge avevano un raggio limitato a 5-10 metri e non erano letali (salvo il percussore di metallo pieno), diversamente da quelle della bomba a mano difensiva SIPE. Ciò consentiva agli assaltatori di correre verso il punto dell’esplosione e affrontare l’avversario stordito dalla forte detonazione. La giubba sulla schiena aveva un’ampia tasca alla cacciatora per stivarne sino a una ventina.
L’armamentario individuale si completava con il moschetto Truppe Speciali oppure il Cavalleria, più corti e soprattutto più leggeri del fucile Mannlicher-Carcano modello 1891, in dotazione al resto delle truppe. Il Cavalleria aveva il vantaggio di avere incorporata una baionetta di 38 centimetri, ripiegabile nella cassa.
Al posto del moschetto sottufficiali, mitraglieri, pistolettieri e flammieri avevano in dotazione un revolver a sei colpi, Bodeo mod. 1889. Agli ufficiali venne data una versione diversa della Bodeo, con ponticello e grilletto fisso, oppure vari tipi di pistola automatica da 7 colpi (Glisenti mod. 1910, Brixia mod. 1912, Beretta mod. 15).
Il Reparto d’assalto ideato dal Bassi prevedeva la presenza di altre armi, operate da specialisti, per assolvere compiti di copertura e di pulizia delle trincee: pistole mitragliatrici Fiat mod.15 (Villar Perosa), mitragliatrici pesanti, lanciafiamme, cannoni da 65mm da montagna, lancia torpedini Bettica, poi sostituite dai più moderni, anche se più pesanti, Stokes da 76 mm di fabbricazione inglese. A questo punto credo sia interessante vedere qualche immagine degli Arditi: link per il video.

So che c’è un’altra ragione per cui hai scritto quel libro. Ce ne vuoi parlare?
Come ho accennato prima c’erano buone ragioni narrative per scrivere un libro sugli Arditi. Inoltre, sono sempre stato affascinato da quello specifico periodo storico in cui si combatté una guerra che vedeva apparire per la prima volta armi moderne (mitragliatrici, bombe a mano, artiglierie a tiro curvo e lunga gittata, gas venefici, aerei, sottomarini, carri armati, etc.), ma in cui spesso i combattimenti si risolvevano corpo a corpo, all’arma bianca e persino col lancio di pietre e massi in montagna. Inoltre proprio in questi anni si è celebrato il centenario della Grande Guerra e lo scorso anno, il 29 luglio, il centenario della fondazione degli Arditi.
Ma la vera ragione, l’autentica scintilla che ha dato fuoco alle polveri e che mi ha portato ad affrontare la sfida di scrivere questo libro è che tra quei particolari soldati c’era anche il mio nonno paterno, Pietro Roseano, classe 1896.
Il libro narra la Grande Storia attraverso la sua piccola, ma significativa storia. Venne chiamato alle armi alla fine del 1915, in fanteria. Si trovò a combattere con la brigata “Taro” in Trentino e sulla Bainsizza, un altopiano vicino a Gorizia, oggi in Slovenia. Poi nel settembre 1917 si presentò volontario ad una selezione per costituire la nuova specialità dei Reparti d’assalto. Come molti altri era stato attratto da una serie di privilegi riservati agli Arditi: niente trincea, paga più alta, licenze premio, rancio caldo e garantito due volte al giorno, alloggiamento in baracche in seconda linea e non all’aperto a terra, niente zaino perché trasportati con i camion, esenzione dai servizi di trincea.
Non sapeva, come gli altri della prima ondata, che a fronte di quei privilegi si rischiava di più la ghirba, ovvero la pelle. Gli Arditi avevano l’ingrato compito di andare per primi all’assalto delle trincee nemiche per penetrare in profondità in terreno organizzato a difesa aprendo la strada alla fanteria o ai bersaglieri. Le probabilità di essere colpiti a morte o feriti erano molto alte. Non a caso una delle caratteristiche richieste per l’arruolamento era che fossero… celibi!
Per fortuna mio nonno se l’è cavata e io sono qui a parlare di Arditi.

(La redazione)

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