Le menzogne dei leader

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Secondo il Washington Post, dall’inizio della sua presidenza fino al primo agosto di quest’anno, il presidente americano Donald Trump ha rilasciato più di 4000 dichiarazioni false o incorrette: una media di 7,6 al giorno. La cosa più notevole è che le sue bugie non sono nemmeno molto creative, plausibili o difficili da confutare: Trump mente perfino quando la bugia è totalmente assurda e facile da smentire. Considerate la sua ultima uscita: la bizzarra teoria secondo la quale quasi 3.000 persone non sarebbero morte a Puerto Rico a causa dell’uragano Maria. Secondo il nostro egocentrico presidente, il numero dei morti sarebbe un’invenzione dei Democratici per metterlo in cattiva luce. Povero bimbo.

Ma ha importanza il fatto che Trump menta con la stessa facilità con cui io e voi respiriamo? In particolare, la cosa mina la sua abilità di condurre la politica estera? Fino a poco tempo fa, avrei pensato (e scritto) che fosse così. E altrettanto lo avrebbero pensato un gran numero di intellettuali, come Keren Yarhi-Milo della Princeton University. L’ovvio timore era che, a causa del ben noto numero di bugie di Trump, né i suoi alleati né i suoi avversari avrebbero creduto alle sue parole. Di conseguenza, l’abilità dell’America di ottenere accordi favorevoli con gli altri -e specialmente accordi che avrebbero coinvolto un certo grado di fiducia- sarebbe stata messa in difficoltà.

Ma forse sono stato troppo precipitoso. Mentre ripensavo a uno dei pochi libri scritti a riguardo delle bugie nella politica internazionale – “Why leaders lie”, del mio collega John Mearsheimer – iniziavo a domandarmi se non avessi torto. È un libro piccolo e affascinante, e solleva delle questioni importanti per capire l’impatto della mendacia impulsiva di Trump.

Mearsheimer sostiene che, anche se la politica estera sia una lotta accesa e competitiva, sorprendentemente i governanti, tra loro, mentono molto poco. Non dice che i leader non mentano mai l’uno all’altro, e riconosce che spesso i governi girino la verità a proprio vantaggio, offrano interpretazioni favorevoli dei fatti e omettano le cose più sconvenienti; in generale, che manomettano l’informazione con l’obiettivo di portare avanti i propri intenti. Ma i politici, tra loro, raramente si raccontano frottole; è così, raramente fanno dichiarazioni che sanno bene essere false per trarre in inganno i loro interlocutori.

Perché? Perché nel mondo altamente competitivo della politica internazionale, nessun leader sensato prenderà per oro colato le parole di un altro leader. La verità è materia scarsa in politica estera, dunque la maggior parte dei leader controllerà punto per punto ciò che gli dice la controparte, prima di onorare un accordo. Sapere che l’altra persona si mostrerà scettica e cercherà delle conferme indipendenti è un forte incentivo a non mentire: se sai che tutto ciò che dici verrà verificato, e che qualunque bugia dirai verrà probabilmente individuata e smentita, perché rischiare?

In contrasto, Mearsheimer ha scoperto che i leader, siano essi democratici o autoritari, mentono regolarmente al pubblico. A quanto pare, sono più propensi a mentire al proprio popolo, che a mentire tra loro stessi. Le persone si fidano maggiormente -un cinico direbbe che sono “ingenue”- e le parole di un leader possono essere amplificate dagli apparati statali, dai media assoggettati al governo, e dagli stessi cittadini che sentono rispetto e ammirazione per le persone nei posti di comando. Di fatto, i leader di qualunque tipo amano esibirsi in grandi esercizi di retorica quando si tratta di impressionare il pubblico e, come Trump dimostra ogni giorno, una certa percentuale di popolazione gli crederà a prescindere da tutto.

Anche in una democrazia perfettamente funzionante, con una stampa libera e politici in competizione tra loro, i leader riescono a mentire facilmente (senza contare lo “spinning” e altre forme minori per manipolare la verità) perché le persone raramente hanno accesso allo stesso numero di informazioni del governo. Questa asimmetria è pronunciata specialmente in politica estera e difensiva, dove molto di ciò che sa il pubblico proviene direttamente dal governo, o da informazioni riservate che occasionalmente trapelano. Poiché difficilmente il cittadino comune potrà avere accesso alle ultimissime informazioni riguardo i Talebani, o ai lavori della commissione per il NAFTA, o sulle condizioni dell’Ucraina, è molto facile per un presidente dipingere una versione falsa della realtà, e molto difficile per gli altri verificarla.

Questa asimmetria dell’informazione ci spiega come hanno fatto il presidente George W. Bush, il vicepresidente Dick Cheney e il segretario della difesa Donald Rumsfeld a mentirci riguardo Saddam Hussein, le sue (inesistenti) armi di distruzione di massa e i suoi collegamenti immaginari con al Qaeda, e a convincere la maggioranza degli americani a prendere lucciole per lanterne.

Il punto è che ai leader non conviene mentire quando hanno a che fare con potenze straniere, perché nessuno gli crede fin dal principio, e le bugie dunque saltano fuori immediatamente. Ma, allo stesso tempo, sono molto incentivati a mentire al pubblico -a condizione di essere popolari- ed è facile che le loro bugie non vengano intercettate, specialmente quando l’argomento è la politica estera.

Queste conclusioni ci inducono a ripensare come la natura ingannevole di Trump possa influire sulla sua capacità di condurre la politica estera. Nessun leader dotato di senno prende le rassicurazioni di Trump come oro colato, visto il record di bugie che ha collezionato prima da privato cittadino e poi da presidente. Ma, se Mearsheimer ha ragione, la maggior parte dei governi non prenderà sul serio le dichiarazioni di Trump a prescindere, anche se egli si fosse in precedenza dimostrato onesto e morigerato.

Oltretutto, nonostante i suoi tweet al vetriolo, Trump non ha sempre agito come ci saremmo aspettati. Lui era ed è scettico della NATO, e nonostante ciò ha riconfermato l’impegno statunitense diverse volte. Era ed è contrario all’attuale sistema commerciale, e ha mantenuto la sua bizzarra fissazione sugli avanzi commerciali come un indicatore (critico?) della salute economica. Rimane assolutamente indifferente alle questioni dei diritti umani, salvo usarli come randello da brandire contro gli avversari, e per lungo tempo è stato molto a suo agio con i dittatori. Trump non ha vacillato nella sua convinzione che l’accordo nucleare iraniano fosse “il peggiore affare di sempre”, anche se questa convinzione era infondata.

Quindi, mentre nessuno dovrebbe credere a una parola che Trump dice, non è che ha cambiato tono una volta diventato presidente. I leader stranieri, quindi, presteranno meno attenzione a ciò che dice e si concentreranno invece su ciò che fa.

(da Foreign Policy – Traduzione di Federico Bezzi)

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