Le debolezze del governo: può opporsi all’UE?

L’altro ieri il direttore Fergola ben rimarcava che questo governo, se continuasse con un’opposizione formale al dominio UE, più politica (decisioni isolate, annunci verbali) che istituzionale (atti e documenti pregnanti, per la serie “carta canta”), cioè insomma più contingente che sostanziale, non realizzerebbe mai l’inversione di tendenza rispetto ai suoi predecessori. Vero. Cerchiamo di capire perché.

Un motivo sta sicuramente nella composita natura della compagine governativa. Al vertice abbiamo un Presidente del Consiglio, il professor Conte in quota grillina, nell’ingrato compito di volto di rappresentanza (pregevole, da persona normale, bisogna dire) di un indirizzo politico che viene stabilito, e non potrebbe essere altrimenti, dai suoi due vice Di Maio (M5S) e Salvini (Lega), leader delle due forze di maggioranza. Un’oggettiva anomalia spiegabile con la natura inedita di un’alleanza di necessità, circoscritta e temporanea (il “contratto”) fra due soggetti destinati – è un auspicio, ma non lontano dalla realtà – a trasformarsi nella sinistra e nella destra del futuro, a meno che il classico centrosinistra da un lato e il classico centrodestra dall’altro non riemergano dalle macerie.

A fare da trait d’union operativo fra le due anime, e tra queste e gli interlocutori obbligati nelle istituzioni (Quirinale, partecipate statali, ecc) è in realtà il sottosegretario alla Presidenza, il pragmatico Giancarlo Giorgetti, vecchia volpe di retrobottega. Uomo di buonsenso estremo, a volte anche troppo estremo, ma in ogni caso una risorsa diplomatica importante, nell’economia complessiva dei rapporti Carroccio-5 Stelle, e soprattutto con l’esterno-mondo.

I dicasteri in mano ai due azionisti forti sono i più pesanti: lavoro e sviluppo economico per Di Maio, interni a Salvini. Ma è nella distribuzione di incarichi e sfere d’influenza dell’intero organigramma dei ministeri che si incontra il primo ostacolo: fra ministro e ministro (si pensi ai balletti fra Salvini e Toninelli alle infrastrutture sulla gestione dell’immigrazione), fra ministro e sottosegretario (il leghista Fontana versus il pentastellato Spadafora sui diritti civili), a volte fra un ministro e se stesso (i medesimi Salvini e Di Maio che postano e twittano – spesso con eccessi: ogni tanto si ricordino che lo Stato è una cosa un po’ più seria del clickbaiting – per correggere il post e il tweet del giorno prima, in modo da far quadrare le posizioni reciproche).

Le differenti linee strategiche tra i due movimenti si fanno sentire eccome, nella tattica giorno per giorno. Ma questo è il meno, essendo fisiologico che se si parte da idee in molti casi parecchio divergenti, si sconta poi una certa schizofrenia. Bisogna anzi dire che, tutto sommato, visti i tipi e la tipologia delle loro truppe, sono anche bravi nell’autodisciplinarsi.

Il più, invece, si ritrova nel secondo punto, politicamente molto più pesante: la presenza di vere e proprie “guardie bianche” del sistema messe lì per rassicurare Mattarella, l’Ue-Bce e i famigerati “mercati”. Un Tria all’economia (per carità già più eterodosso di un Monti, ma ci vuol poco) o un sempiterno Moavero agli esteri, danno forma plastica al compromesso, forzato e obtorto collo finchè si vuole ma che c’è, con l’establishment di sempre. Sono come dei lasciapassare minimi perché il galateo di deferenza verso i poteri che ci sovrastano riceva il suo tributo, salvando l’etichetta e non solo quella: son lì apposta a presidiare i due ambiti che fanno da snodo coi vincoli esterni di cui sopra, anche qua generando un’ambiguità e ambivalenza che caoticizzano il governare quotidiano.

Prendiamo un ben altrimenti europeista critico come Savona alle politiche europee, per esempio: che spazio di autonomia ha rispetto a Tria e Moavero? A corollario, ci sono poi personalità di indubbio pregio che sembrano agire nell’ombra, perché poco si vedono e poco si sentono. Nascosti per lo più nei sottosegretariati, come il no euro doc Borghi o come il costituzionalista anti-liberista Barra Caracciolo. L’economista Bagnai solo ora è stato promosso a voce ufficiale della Lega sul fronte economico, e vedremo come svolgerà il nuovo ruolo. Ecco, se da un lato è positivo che non si affaccino ogni due per tre sui social e sui giornali, dall’altro non è chiaro quale sia la loro libertà di manovra, e come la stiano usando.

Terzo: l’evidente, e logica, rincorsa verso l’appuntamento elettorale delle europee della primavera del 2019. Non si può fare una colpa a dei partiti politici perché, come tutti, brighino per arrivarci col maggior consenso possibile. Ma non si può neanche tacere sul fatto che questo non permette di imbastire iniziative non diciamo di lungo, ma neppure di medio periodo. Se a tale dato, banale, si aggiunge la rivalità interna, latente ma potente, fra grillini e leghisti, l’effetto è di un decisionismo a spot che alla lunga produce inconcludenza, cioè non produce.

Quarto: l’inadeguatezza di fondo della classe dirigente dell’uno e dell’altro populismo più o meno sovranista. Detto e ripetuto più volte, è la solita storia: lo spessore intellettuale, l’ispirazione culturale e la visione ad ampio raggio difettano vistosamente. E non parliamo solo di improvvisazione e confusione (vedi caso vaccini, con un’anda e rianda imbarazzante), né tanto meno di gaffes, ingenuità e congiuntivi sbagliati (minutaglia a cui si attaccano i radical chic cretini che non capiscono che fare i maestrini dalla penna rossa rende ancora più simpatici, agli occhi del cittadino medio, i “barbari”).

Parliamo piuttosto di una mancanza di pensiero forte e strutturato. Come attenuante, va concesso che nessuno, ma proprio nessuno degli attori politici sulla scena si porta in dote una cultura politica degna di questo nome. Tuttavia il deserto generalizzato non è un alibi che giustifichi chi si pone compiti, se non rivoluzionari, quanto meno di rottura rispetto allo status quo ante.

Quinto: quel tanto di realpolitik obbligatoria che qualsiasi inquilino a Palazzo deve mostrare per non dare pretesti alla speculazione internazionale per colpire e affondare un governo considerato alieno e non allineato. Di qui le dichiarazioni al cloroformio dei triumviri (oddio, meglio dire duumviri più uno): sugli impegni con l’Ue che saranno rispettati, sulla manovra tranquillante tutta stabilità&crescita, sulla promessa che nessuna sfida sarà portata ai sacri templi eurocratici.

Ma contemporaneamente, per un Di Maio che si ferma qui magari perché pensa di “compensare” di fronte all’opinione pubblica con legge anti-corruzione e taglio a pensioni d’oro, c’è un Salvini che controspinge contraddicendo scientificamente il semi-alleato e se stesso («il modello Aquarius sarà trasferito alla materia economica», intendendo dire che come sulle navi Ong si è ricorsi al pugno duro, così si farà sulla trattativa con i contabili UE per spuntare maggior deficit e ottenere così più margine per finanziare primi stralci di flat tax, reddito di cittadinanza e abolizione legge Fornero).

A meno di imprevisti apocalittici, lo “strano governo” della combinazione gialloverde durerà fino alle elezioni europee, che faranno da check up al suo stato di salute e ci diranno se avrà un futuro. Ma come la Storia insegna, le contraddizioni prima o poi si aprono come ferite rimosse. Questo, Salvini e Di Maio lo sanno. Eppure, vanno avanti. Il perché è umano troppo umano, politico troppo politico: primum vivere, deinde…

(di Alessio Mannino)