Intellettuali e potere: da Chomsky ai giorni nostri

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Nel saggio “I nuovi mandarini”, pubblicato durante la guerra in Vietnam, Noam Chomsky delinea lucidamente il rapporto tra intellettuali e potere, nello specifico indicando il modo in cui l’intellettuale contribuisce a formare un discorso politico dominante. Una riflessione ormai vecchia di cinquant’anni, ma che, proprio grazie alla lente della distanza storica, aiuta a vedere come questo legame, tutt’altro che episodico o anomalo, sia in realtà strutturale.

Colpisce, ad esempio, il modo in cui all’epoca le voci di dissenso sulla guerra in Vietnam venivano tacitate di sentimentalismo e isterismo, tracciando così una linea netta, nel discorso dominante, tra critica pragmatica e critica isterica. Un atteggiamento che sembra ripetersi anche adesso, semplicemente sostituendo isterismo con populismo.

Negli anni Sessanta, l’intellettuale si definiva pragmatico se accettava, senza sforzarsi di analizzare criticamente, “l’attuale distribuzione del potere e le situazioni politiche che ne scaturiscono”, concedendosi giusto di “lavorare per lente misure di miglioramento in modo tecnologico e frammentario”. Un’accettazione completa e, diremmo, supina dello status quo, che non va mai messo in dubbio nei suoi elementi fondanti: eventuali critiche allo stesso vanno quindi sempre inquadrate al suo interno, senza porre alcuna questione in merito alle fondamenta politiche e ideologiche su cui esso poggia.

Ora come allora, dunque, le voci realmente critiche, di rottura, vengono sminuite in partenza e considerate indegne di cittadinanza nel discorso politico; ed ecco la categoria di populismo, ormai svuotata del significato originario e usata per denigrare ogni opinione non allineata agli assiomi fondamentali della discussione. E se una volta la cosiddetta critica isterica era quella che rifiutava il “diritto degli Stati Uniti di estendere il proprio potere e controllo senza limiti”, adesso viene definita critica populista quella che nega il diritto delle organizzazioni sovranazionali, considerato del pari innato e inalienabile, di decidere delle sorti degli Stati e degli individui.

Il ruolo degli intellettuali in questo meccanismo è fondamentale. Sono loro, tramite i mezzi di comunicazione e il sistema universitario, a dare legittimità al discorso politico dominante. La loro responsabilità è ancora più grave, secondo Chomsky, perché gli intellettuali sono coloro i quali non solo hanno pieno accesso alle fonti dell’informazione, ma soprattutto, almeno in teoria, sono in possesso dei mezzi per decifrarle e “ricercare la verità che giace nascosta sotto il velo delle distorsioni, delle false rappresentazioni, dell’ideologia e dell’interesse di classe attraverso il quale gli avvenimenti della storia contemporanea ci vengono presentati”.

Chomsky osserva come le scienze sociali abbiano un ruolo sempre più preponderante nella messa al bando delle opinioni difformi, al punto che la figura dell’intellettuale indipendente, come era concepita un tempo, viene via via sostituita con quella dello studioso-esperto, il quale vanta di poggiare le sue basi ideologiche sui princìpi delle scienze sociali. È da aspettarsi dunque che “le élite politiche useranno la terminologia delle scienze sociali e comportamentistiche per proteggere le loro azioni dall’analisi critica”, e continua: “Per qualsiasi azione particolare si possono certamente trovare nelle università esperti disposti a fare dichiarazioni solenni circa la sua opportunità e il suo realismo”. Un modus operandi che, dall’epoca in cui l’Autore scriveva, abbiamo visto affinarsi fino a diventare un meccanismo perfettamente oliato e quasi automatico.

Un altro modo per escludere l’intellettuale indipendente dalla possibilità di intervenire nel discorso è la modificazione del linguaggio. Una modalità che nel corso degli anni abbiamo visto essere ampiamente sfruttata, e di cui si possono enumerare svariati esempi: dai “territori occupati” della Palestina diventati “territori contesi”, fino ai “ribelli moderati” delle primavere arabe, è la dimostrazione che le parole possono mutare l’atteggiamento generale che si ha verso uno specifico argomento. Un ulteriore esempio di ciò è il dibattito sorto negli ultimi anni intorno alle declinazioni femminili dei sostantivi, diventato improvvisamente una fondamentale battaglia di civiltà per alcuni, come se l’eventuale ingresso nel vocabolario di termini come “architetta”, “sindaca” o “ministra” possa cambiare effettivamente qualcosa nel ruolo della donna all’interno della società.

Un’istituzione come l’Accademia della Crusca, la cui esistenza peraltro dipende dai finanziamenti pubblici del ministero dei Beni culturali, e che non ha quindi alcun interesse a porsi in contrasto con questa narrazione, non si è negata a questo gioco delle parti, portando avanti il principio che il linguaggio è in continua evoluzione in base all’uso comune. Principio giustissimo, ma che non tiene conto della differenza tra una modifica dal basso e una modifica dall’alto: quest’ultima è tipica degli stati totalitari, com’è esplicato perfettamente nel concetto orwelliano di neolingua.

Del resto, si chiede Chomsky, che interesse avrebbero gli intellettuali a sottrarsi a questo comodo meccanismo? Accettando questa serie di princìpi preordinati al discorso dominante, e soggiogandovisi, la classe intellettuale è riuscita a raggiungere “potere ed opulenza”; e tutto ciò che aspetta il libero pensatore non allineato è l’ostracismo e il ripudio da parte della società.

(di Roberto Bargone)

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