Tom Wolfe, profeta del degrado occidentale

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Di persona, Tom Wolfe era piuttosto sottomesso, addirittura mite. Ricordo di essere rimasto molto deluso, quando ho scoperto che lo scrittore che da molto tempo mi aveva incatenato alle pagine dei suoi libri non era né un piantagrane come Hunter S. Thompson, né un malizioso cantastorie come Gore Vidal. Al contrario, la personalità di Wolfe era l’unica caratteristica tranquilla della sua persona, in contrasto con la sua prosa infuocata, con i geyser culturali degli anni ’60 che eruttavano intorno a lui, perfino con il suo ben noto completo bianco.

D’altra parte, come altro avrebbe dovuto essere? Wolfe, la cui morte questa settimana ha lasciato un enorme vuoto sulla scena letteraria, oggi è conosciuto per i suoi romanzi. Ma prima di ciò, è stato il più raffinato reporter della sua generazione, con un orecchio per la precisione dialettica e un occhio per la sfumatura estetica: cose che non avrebbe mai ottenuto, se avesse preferito parlare invece di ascoltare, ostentare invece che ascoltare.

Cresciuto come giornalista, ispirato da realisti come Dickens e da naturalisti come Zola, ha costruito la propria carriera prima sperimentando con i reportage narrativi -che lui ha elaborato in uno stile letterario chiamato “New Journalism”-, poi applicando gli stessi principi alla fiction. Infaticabile testimone della condizione umana, si avventurava costantemente in quei luoghi che lui desiderava ritrarre, e scherniva quegli scrittori -tra i quali John Updike e John Irving- che considerava troppo sottomessi ai salottini.

Tom Wolfe, profeta del degrado occidentale
“Radical chic: il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”, uno dei libri più celebri di Wolfe

Wolfe evocava quegli intrepidi scrittori che, come ha scritto nel saggio A caccia della bestia da un miliardo di piedi, “si buttano a capofitto in questa nazione selvaggia, bizzarra, imprevedibile, obesa, barocca, e la reclamano come una loro proprietà letteraria”. In un’epoca in cui i grandi scontri etnici, come quelli di Charlottesville, sono narrati da giornalisti seduti davanti al computer a centinaia di miglia di distanza, questo richiamo è più attuale che mai.

Non è stata solo la meticolosa ricerca a distinguere il giornalismo di Wolfe, ma il suo stile contagioso, che ha ispirato la prosa di molti giovani e ammirevoli scrittori. Wolfe solo poteva fare Wolfe -questo è evidente- eppure il suo folle modo di interagire con le parole è uno studio essenziale per chiunque voglia sviluppare uno stile di scrittura efficace. Nelle scuole superiori, troppi studenti vengono iniziati al culto di Strunk e White(1), quei terribili signori della brutta scrittura che, se ci fosse giustizia a questo mondo, sarebbero già stati incriminati per crimini contro il linguaggio da qualche sorta di tribunale letterario.

Wolfe è l’antidoto a tutto ciò, perché sa rompere allegramente e metodicamente ognuna delle loro orribili regole. I suoi testi fanno lo slalom tra frasi lunghissime, frammenti, dialetti, slang, nomi di marchi, onomatopee, arcaicismi, allitterazioni, punti esclamativi, corsivi e neologismi. Ciò che la grammatica inglese ha costruito, Wolfe l’ha distrutto con la dinamite e costruito il suo stile originale sulle macerie.

Per Wolfe, un gruppo di ragazzini che mangia degli snack nella San Francisco City Hall era una “tempesta di bambini”(2) che riempiva “tutta l’aria con un uragano di latte al malto, una tormenta arancione di ghiaccio tritato dagli Slurpees, con orrori rosso acido come il rosso delle mele caramellate e la gelatina delle ciambelle gelatinate, con globi di gelato in fogli viola di birra di radice, con cannucce di plastica e enormi e biliose tazze di carta e lattine di punch e spruzzi di Winkles, e con senape che cola dagli hot dog e piccole foglie di insalata dai tacos, con cose che spruzzano e cose che cadono e cose che sciolgono e appiccicano…”.

Tom Wolfe, profeta del degrado occidentale
“Il falò delle vanità”

Le donne emaciate delle classi alte di Manhattan erano “raggi X sociali“, le battute sarcastiche degli studenti del college erano classificate in una scala che andava da “Sarc I” a “Sarc III”, e il passaggio di alcune auto elaborate era descritto così: “Ecco Che Va (Broom! Broom!) Quella Bellezza Aerodinamica Mandarino (Rahghhh!) Kolor-Karamella (Thphhhhhh!) Attorno Alla Curva (Brummmmmmmmmmmmmmm)”.(3)

Questo stile, maniacale e contorsionista, era ideale per opere fuori dagli schemi anni ’60 come L’Acid Test al Rinfresko Elettriko(4), dove la maggior parte dei soggetti di Wolfe erano sotto acidi, ma ha funzionato sorprendentemente bene anche ne Il falò delle vanità, dove il bisogno dei suoi personaggi di mantenere il proprio status sociale sfocia in un trionfo di pianti isterici.

Il falò delle vanità è probabilmente il miglior romanzo di Wolfe, e sicuramente il miglior libro su New York City mai scritto. Ma il libro che più di ogni altro mi stupisce è il sottovalutatissimo Io sono Charlotte Simmons(5), lo studio di Wolfe sui moderni campus universitari. E’ stato messo alla gogna dai critici, e non a torto, per il poco spessore dei personaggi e per il lavoro frettoloso di editing.

Nonostante ciò Io sono Charlotte Simmons è anche il romanzo di Wolfe più conosciuto al mondo, pieno di punzecchiature nelle quali si riconoscerà chiunque abbia frequentato l’ambiente universitario. Wolfe lo ha scritto dopo avere osservato, per quattro anni, festini universitari e sport dei college, e il risultato è un allarmante tifone di sesso e degradazione, tutto visto attraverso gli occhi di una innocente matricola proveniente dagli hinterland della North Carolina.

In particolare, è impossibile distogliere lo sguardo dal finale, che vede una imbarazzante Charlotte bere troppa vodka e provarci col bifolco Hoyt Thorpe -mentre il lettore è felice per la sua accettazione nella società, e al contempo teme il momento in cui la protagonista perderà la verginità-. Le conseguenze della vergogna e della depressione che affliggono Charlotte sono abbastanza strazianti da convincere chiunque a rivalutare i propri bei tempi passati all’università.

Come tutto ciò suggerisce, Wolfe era un uomo di destra. Lo dico non nel modo ipotetico in cui alcuni conservatori considerano di destra i creatori di South Park Trey Parker e Matt Stone (“prendono in giro i liberal, quindi devono essere dei nostri!”), ma come dato di fatto. Non solo ha attinto molti dei suoi argomenti dalle patologie della sinistra anni ’60, ma ha anche lanciato strali contro i comunisti e i radicali; ha scritto per American Spectator; ha recensito molto bene il libro di Jonah Goldberg Liberal Fascism(6), e ha speso anche delle belle parole per George W. Bush. Questo, penso, era sia la genuina espressione delle sue radici del sud, sia una celebrazione del famoso motto di Kingsley Amis: “se non riesci a dare fastidio a qualcuno, scrivere non ha molto senso”.

Wolfe era dentro l’establishment newyorkese, ma non ne faceva parte, e non gradiva altro che mettere il dito nell’occhio alle “eminenze”. O, come la metteva lui, “fanno tutti le stesse cose, senza cambiare mai. Diventano noiosi. C’è qualcosa in me che vuole che io non sia mai come loro”.

Le “eminenze” hanno, in diverse occasioni, risposto al fuoco. John Updike ha definito il romanzo di Wolfe Un uomo vero(7) “non letteratura, neppure letteratura che aspira ad esserlo”, mentre John Irving ha descritto lo stile di Wolfe come “vomitevole”. Christopher Hitchens, che non rispettava particolarmente Wolfe, ha dichiarato che “probabilmente non c’è mai stato un romanzo meno lungimirante di Il falò delle vanità“.

Su quello, almeno, aveva un po’ ragione. Il falò delle vanità, che mischiava insieme gli zotici affamati di denaro abitanti a Park Avenue con le sottoclassi nere del Bronx, preventivava una New York dilaniata dal conflitto di classe e razziale. Al tempo in cui Hitchens scriveva, New York si stava trasformando in un ospizio a cielo aperto, con Rudy Giuliani che faceva guerra a chi non attraversava sulle strisce, che generò a sua volta la guerra di Michael Bloomberg alle zuppe in lattina.

Il crimine stava diminuendo, l’ordine si stava ristabilendo, e le autorità smettevano di dare la caccia ai grossi criminali per concentrarsi sui reati minori. Wolfe, a quanto pare, aveva sbagliato. Ciò conduce ad un’altra critica rivolta all’autore: ovvero che, invece di descrivere un campus universitario dell’Atlanta diversamente da un campus universitario di New York, Wolfe ha applicato il modello “Falò” a trecentosessanta gradi; una sorta di identità politica di destra a taglia unica che vede le differenze demografiche come inconciliabili, che si tratti di ricchi o poveri, bianchi o neri, ragazzi popolari e nerd sfigati.

Tom Wolfe, profeta del degrado occidentale
“Le ragioni del sangue”

Tale lente potrebbe avere distorto la visione di New York, ma applicatela all’America dei giorni nostri e, all’improvviso, non sembra così sbagliata. Wolfe interpretava l’umanità come prevalentemente tribale: le persone prendono i costumi e i pregiudizi del gruppo al quale appartengono, e si scontrano con quelli che non vi appartengono. Ecco perché i suoi personaggi sono spesso accusati di essere generici e universali, invece di essere particolari.

Ecco perché, infine, il suo ultimo (e più debole) romanzo, Le ragioni del sangue (8), è ambientato a Miami e parla delle tensioni causate dall’immigrazione di massa. Cosa potrebbe essere più preveggente di ciò, citando Hitchens? In Le ragioni del sangue, il sindaco cubano-americano di Miami dice al capo della polizia afro-americano: “Intendo dire che non possiamo integrarli, ma che possiamo creare dei posti sicuri per ogni nazionalità, ogni gruppo etnico, ogni razza, e assicurarci che siano tutti sullo stesso livello”.

E’ questo il nostro destino? Un’America di sottogruppi che non si integreranno mai? Siamo destinati a vedere ulteriori conflagrazioni come a Charlottesville? O il sogno liberal del multiculturalismo è ancora possibile, e perfino desiderabile? Il fatto che ci stiamo ponendo queste domande è la migliore vendetta che Wolfe abbia ottenuto sui suoi detrattori.

In definitiva, l’unico modo per ottenere risposta alla domanda se abbiamo dei problemi nella nostra America, è quello di allacciarsi le scarpe, determinati a confrontarci con le stranezze che vediamo fuori dalla porta delle nostre case, prendere un quaderno, scrivere cosa ci passa in testa e farlo in un modo che -il cielo ci aiuti!- sia divertente da leggere. Il lavoro di Tom Wolfe è ora il nostro lavoro. Possa riposare in pace.

1) William Strunk e E.B. White sono gli autori di The Elements of Style, un popolarissimo manuale di stile di scrittura
2) “Childstorm” nell’originale
3) Tratto da The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby, edito da Feltrinelli nel 1969
4) The Electric Kool-Aid Acid Test, edito da Feltrinelli nel 1970
5) I Am Charlotte Simmons, edito da Mondadori nel 2004
6) Non tradotto in italiano
7) A man in full, edito da Mondadori nel 1998
8) Back to blood, edito da Mondadori nel 2012

(da The American Conservative – traduzione di Federico Bezzi)

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