Con la Palestina, oggi più che mai

Siamo rimasti a lungo ad osservare la situazione sulla striscia di Gaza. Le diamo credito, continuamente e ossessivamente, nella speranza di una composizione. Guardiamo con stupore il nulla che avanza, anzi, rimane statico, in Cisgiordania e negli altri territori occupati, da sempre, come se ci fosse una vana materia del contendere.

Nulla è cambiato e, a quanto pare, nulla cambierà. La notizia dell’ennesimo attacco israeliano ai palestinesi:  almeno 16 morti e 1300 feriti tra la striscia e il confine.

Il motivo?  Fondamentalmente, la Grande Marcia del Ritorno, una commemorazione, nel Giorno della Terra, dell’anniversario dell’esproprio delle terre palestinesi del 1976. Tende, punti di aggregazione, si prevedeva che le proteste sarebbero durate sei settimane.

Ma l’esercito israeliano non ci sta. La zona è militare e inaccessibile, dice. Non vi avvicinate. Non trasportate i bambini verso i confini. E la reazione a qualche sasso è feroce. Spari sulla folla, addirittura l’utilizzo di droni, come testimoniano anche i video pubblicati da RT su gente sostanzialmente “armata” alla “niente” come ribadisce un altro video, quello di Ruptly:

La retorica della frontiera da abbattere si capovolge in modo del tutto curioso: da queste parti si parla di accogliere presunti profughi in terre che non sono proprie, e guai a trasgredire, che sarebbe disumano, figuriamoci a sparare.

Sul confine israelo-palestinese un popolo depredato della propria casa continua a non recepire un sopruso che dura da settant’anni, ma lì il presunto “aggredito” ha il diritto di reagire come meglio crede, con la violenza che ritiene più idonea, uccidendo e ferendo, senza che l’umanissimo Occidente e tutti i suoi sacerdoti aprano bocca.

Non potevano manifestare, i palestinesi. Non potevano ricordare al mondo come, dall’altra parte, ormai 42 anni fa, gli avessero provocato l’ennesimo furto. Cadono sotto i colpi delle mitragliette israeliane attivisti come Muhammad Naim Muhammad Abu Amro, 35 anni, colpito allo stomaco. Poi Mahmoud Saidi Younis Rahmi, 34 anni, colpito al petto, Ahmad Ibrahim Ashour Awda, 19 anni, alla testa. E altri ancora.

In un fiume di sangue di un popolo che non molla. Certamente si può discutere del fatto di essere “preda” di Hamas, ma non si può ignorare che di scelte non ce ne siano molte, perché la lotta è per una sola cosa: l’esistenza.

E chi frigna per “l’incitamento alla folla” che non avrebbe dovuto trovarsi lì, sulla riga, nemmeno a protestare per “rispettare i confini istraeliani”, continua a ignorare che quei confini sono frutto di un’appropriazione violenta.

Chiudo con una riflessione amara: se Yzthak Rabin è stato l’unico ad andarci vicino in ormai 70 anni, l’unico stringere “sul serio” la mano ai vertici dell’OLP, un motivo c’è. Ed è lo stesso per il quale è stato ammazzato come un cane.

Ci sarà stata anche partecipazione per la sua morte, ma se dopo oltre 20 anni non c’è stato seguito alle sue azioni, significa una cosa sola: che Israele è Ygal Amir, ovvero l’estremista che premé il grilletto. E non sembrano esserci indizi su una sua conversione.

(di Stelio Fergola)