Sudafrica, è ufficialmente un apartheid contro i bianchi

C’era una volta la nazione arcobaleno, meglio nota come Sud Africa, che dopo aver abbattuto il regime dell’apartheid, sotto la guida carismatica del Presidente Nelson Mandela eletto nel 1994, aveva realizzato un idillio multirazziale nella quale africani di varie etnie, boeri e bianchi di origine britannica vivevano assieme senza troppi problemi. Peccato però che fin dalla fine del mandato presidenziale di Madiba, forse anche da prima, la situazione non fosse più tale.

Sotto la guida dell’African National Congress, partito egemone nella maggior parte del Sud Africa, il razzismo anti bianco sta dilagando senza che la comunità internazionale si indigni o vengano denunciati soprusi, che a parti invertite sarebbero la colonna sonora della stampa progressista occidentale.

A subire i continui attacchi, perpetrati per lo più da gang criminali e milizie paramilitari di estremisti sono senza dubbio i contadini afrikaner, che ad onor del vero possiedono la maggior parte delle terre coltivate, ma che allo stesso tempo rappresentano il cuore pulsante dell’agricoltura africana. Nelle città il clima è apparentemente più mite, ma solo perché la maggior parte dei bianchi (e dei neri ricchi) vive all’interno di quartieri militarizzati: con cinta murarie, guardie armate agli ingressi e videocamere ovunque.

La politica non sembra però rispondere in nessuna maniera agli svariati appelli di pace sociale lanciati dalla minoranza bianca, circa l’8% della popolazione, e dalle etnie africane meno avverse agli ex dominatori. Il neo eletto presidente Cyril Ramaphosa, leader indiscusso anche all’interno del partito, ha approvato una legge costituzionale che permetterà al Governo di espropriare le terre di proprietà dei bianchi per darle ai contadini neri, senza che i primi possano ricevere alcun tipo di risarcimento.

Ad alzare i toni, i maniera ben aldilà di quello che può essere un normale scontro politico, è il partito di estrema sinistra Economic Freedom Fighters (EFF), il cui leader Julius Malema era finito al centro della critica per essere stato ripreso mentre cantava la canzone “Shoot the Boer”, letteralmente “Spara al Boero”, non di certo un inno alla pace a alla fratellanza.

Lo stesso Malema, se possibile, si è spinto addirittura oltre, dichiarando: “Noi non chiediamo il massacro dei bianchi, almeno per ora. Noi non stiamo promuovendo la violenza, ma non posso garantire il futuro. Io non sono un profeta”.

Secondo alcune stime dal 1996 ad oggi gli assalti alle farm di proprietà afrikaner sarebbero quasi 12mila, con oltre 1600 morti. Numeri che in altri contesti avrebbero fatto parlare assai di più, spingendo magari qualcuno ad etichettare il fenomeno come pulizia etnica.

Al netto di tutto ciò il Ministro dell’Interno australiano Peter Dutton, esponente del Partito Liberale dell’Australia, si è detto disposto a riconoscere i contadini bianchi sudafricani come profughi. Tutto ciò mentre l’Occidente “democratico” ed “antirazzista” fa orecchie da mercante continuando ad ignorare la faccenda, e senza che nessun paladino dell’accoglienza si dicesse pronto ad accogliere quelli che sono dei veri e propri perseguitati politici nel loro paese.

Una riflessione sorge però spontanea, perché questa vicenda non viene praticamente discussa in Europa? La risposta appare tristemente ovvia, il dogma del politicamente corretto non ammette l’esistenza di un razzismo diverso da quello dei bianchi verso le altre etnie.

L’esterofilia esagerata della sinistra ben pensante, abbinata all’auto razzismo da anni proopagandato sulle “colpe storiche” dell’uomo bianco, hanno ormai inquinato in maniera irreversibile la mente di molti: criticare l’attuale sistema sudafricano sarebbe sinonimo di nostalgia dell’apartheid e retaggio della mentalità colonialista o suprematista bianca.

(di Pietro Ciapponi)