La normalizzazione dei cinque stelle, i menscevichi moderni

Il Movimento 5 Stelle vuole andare al potere. E fin qui è l’ovvio. Ma soprattutto il Movimento 5 Stelle deve andare al potere, o meglio al governo (il Potere vero, con la p maiuscola, ha domicilio nella penombra delle centrali finanziarie, fondi e banche internazionali; mica a Palazzo Chigi). A quella maledetta poltrona di Presidente del Consiglio, il Giggino Di Maio deve arrivarci a tutti costi. Adesso, alle prossime ormai imminenti elezioni. Altrimenti la creatura che ha ereditato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio corre il serissimo rischio di afflosciarsi su sé stessa. Anche se ha un asso nella manica.

Prima, un po’ di storia. L’evoluzione dei grillini, o pentastellati che dir si voglia, è stata tutto sommato lineare, sia pur fra sbandate e incertezze. Nel 2013 hanno esordito in parlamento come prima forza politica d’Italia sull’onda del rabbioso “vaffanculo”, impersonato dal comico-fondatore e manovrato dietro le quinte dal guru-cofondatore. Venivano allora da più di cinque anni di battaglie quotidiane sul blog e nei meetup sparsi in tutta le penisola, secondo uno schema che costituisce ancor oggi la fragile ma dinamica ossatura del movimento: spontaneismo anarchicheggiante in basso, dittatura diarchica in alto (Beppe, e il semidivino staff della Casaleggio Associati).

Gente proveniente agli inizi in gran parte da sinistra, più o meno i classici temi dell’impegno sociale ed ecologista (democrazia diretta, difesa dei beni comuni ecc), contestazione terra terra dei privilegi della “casta” politica e del berlusconismo, ma anche un interessante lavoro di ricerca e apertura a filoni ed autori non sempre scontati (oltre il solito Rifkin il meno solito Latouche, la parola all’imperversante Stella ma anche al molto meno mainstream Massimo Fini, presenza fissa Travaglio e contemporaneamente un attacco a intermittenza allo strapotere delle lobbies sovranazionali, benchè stando sempre al di qua di una denuncia completa di eurocrazia e usurocrazia). Il tono dominante è l’improvvisazione creativa, caotica ma vitale.

Dopo una legislatura in cui la parola d’ordine “né destra né sinistra” è stata tradotta in realtà procedendo a zig zag, ma con una certa progressione – si pensi all’alleanza a Strasburgo con il sovranista Farage e alla linea furbescamente pragmatica sull’immigrazione – oggi i Cinque Stelle hanno un personale politico nelle Camere sicuramente più preparato del livello medio, inadeguato, che predomina ancora fra gli attivisti di base, tutti buona volontà ma zero esperienza.

Così, sono già partiti in campagna elettorale a tutto gas senza aver risolto il problema decisivo di non imbarcare mediocri, stupidi, ominicchi e quaquaraquà in ossequio al dettame casaleggista “uno vale uno”, fesseria sesquipedale come poche. Il grande limite mai affrontato né tanto meno superato resta quello: non essersi mai dotati, e non voler dotarsi neppure adesso di una struttura con criteri di formazione e selezione della classe dirigente per capacità politica.

Questo, a valle. Perché a monte è mancato sempre e manca tuttora un pensiero coerente e fondante. Anche se, bisogna dirlo, una sensibilità di fondo uguale nel tempo è rimasta: quando ad esempio i grillos votano a favore del biotestamento o della legalizzazione della cannabis, riemerge l’originale matrice libertaria che non hanno mai abbandonato.

Ci si ricorderà quando erano tacciati di ignoranza del gioco politico, liquidandoli come “antipolitica” quando invece va loro dato atto che hanno richiamato alla politica cittadini che non sanno più nemmeno cosa sia, un partito. Ebbene, stanno dimostrando di aver imparato eccome a giocare la palla, quando meno sotto il profilo del marketing – che nella società dello spettacolo è l’anima pubblicitaria del commercio (di voti).

Anzi, sembrano eccedere in senso opposto, con innocente sfrontatezza. Di Maio rappresenta in pieno, con quella un po’ irritante faccia da bravo ragazzo, l’ultima versione strasmaliziata e paracula di un non-partito aspirante pigliatutto. All’elettorato di sinistra promette di ripristinare l’articolo 18 per le grandi imprese, abolire il Jobs Act e la Buona Scuola; all’elettorato di centro fa sognare un popolo italiano che ricominciare a figliare come conigli importando le riforme francesi – targate Jospin – a favore della famiglia, strizza l’occhio ai cattolici ammiccando al Vaticano e mettendo in mostra la fede del candidato premier (il bacio a San Gennaro); all’elettorato di destra agita la critica alle Ong e al business migratorio e propone un fisco e una legislazione semplificati, accusando il redivivo Berlusconi di non aver saputo realizzare la “rivoluzione liberale”.

Si ispira al governo liberista di Rajoy (anzichè, per dire, a Podemos), scrive supinamente una lettera a Macron (sic) per fargli sapere che non è un populista bensì «popolare», va ad pedes a Washington a rassicurare i finanzieri Usa, mentre una delegazione M5S incontra a Roma le grandi banche d’affari (entrambi i meeting non hanno granché entusiasmato i boss della speculazione, per la verità). Insomma, sfoggia moderazione e senso istituzionale e sceglie ad arte cosa dire per agganciare l’intero arco politico, offrendosi come il catalizzatore degli scontenti di ogni schieramento.

Senza tradire, almeno in superficie, l’istinto protestatario e vagamente ribelle (si pensi all’idea di far eleggere il governatore della Banca d’Italia da due terzi del parlamento, una riformetta innocua ma che passa da massimalista se pensiamo al leccaculismo imperante verso la “santità” del governatore Visco). Ma al tempo stesso, sterzando definitivamente e ostentatamente verso il contrasto interno al sistema. Perché anti-sistema, il Movimento 5 Stelle non lo è mai stato: ne ha avuto e in parte ne ha ancora pulsioni, suggestioni, accenni, abbozzi.

Ma di rivoluzionario non ha mai avuto nulla. Al massimo, qualche tratto di sana contrapposizione a certi tabù, poi rientrata. Si pensi all’aborto acclarato dell’antagonismo alla Nato, o all’abbandono totale del vagito no euro. Dunque una formula di acchiappo “omnibus”, il nuovo corso del testimonial Di Maio. Che potrà anche pagare nell’immediato, ponendo le basi per accordi post-elettorali con la Lega o con la sinistra di Grasso, ché tanto ormai per i grillini pari sono, o quasi.

Ma che li consegna una volta per tutte al prevedibile esito di un movimento nato incendiario (o presunto tale), e invecchiato pompiere. Forse è per questo che il Dibba ha scelto il mestiere del papà un po’ fancazzista, fra viaggi e libri: per prepararsi a sostituire il plasticoso Giggino se fallisse. E ripuntare in seconda battuta sulla carta del radicalismo sui generis (senza esagerare, Che Guevara era un’altra cosa, anche perché altri erano i tempi) dovesse mai il M5S impaludarsi nelle sabbie mobili di un altro quinquennio sui banchi della minoranza.

E’ presumibilmente lui, il figlio dell’ex missino che accusa ora il movimento di aver lasciato intatta famosa la “scatola di tonno”, è Di Battista l’asso di riserva nel mazzo a 5 Stelle. Che allo stato attuale stanno vivendo l’involuzione naturale di un esperimento in fieri che un qualche sprazzo d’interesse lo ha ancora (il reddito di cittadinanza, per esempio), ma che si sta normalizzando eliminando spigoli e punte di destabilizzazione, rimasta solo potenziale.

Di Maio non è la famosa “cuoca” di Lenin che diventa primo ministro. Perché manca Lenin. I Cinque Stelle, in una improbabilissima neo-Rivoluzione d’Ottobre, sarebbero come i menscevichi. Condannandosi alla stessa fine.

(di Alessio Mannino)