Unica italiana, discriminata a scuola. È questa l’integrazione?
Immaginate di svegliarvi un giorno e di trovarvi, senza volerlo, di colpo, in un Paese straniero, con una cultura lontanissima dalla vostra a dividervi dal resto delle persone.
Può sembrare fantascienza, un episodio di “Ai confini della realtà”, ma è quanto accaduto a una ragazzina dell’istituto comprensivo “Cittadella” di Modena, costretta a cambiare scuola perché discriminata dai compagni, lei, unica italiana in una classe di diciotto stranieri.
È il dramma della (dis)integrazione che si abbatte sui più piccoli; è lo specchio di quanto già visto in altri lidi, in Francia o in Svezia. È il prodromo, senza voler essere allarmisti, della futura ghettizzazione, conseguenza inevitabile del modello occidentale di multiculturalismo, realizzato non integrando il singolo straniero nella comunità nazionale ospitante, ma ammassando indiscriminatamente culture. È il credo in una “mano invisibile” che come non regola, nella realtà dei fatti, la vita economica non lo fa nemmeno con quella sociale.
È la classica storia di come l’assenza di regole, di mediazione e di freni porti al disastro. “Mia figlia era discriminata perché cattolica” dice Rosaria, la madre della piccola, “nessuno la invitava e nessuno accettava i suoi inviti. E per questo ci soffriva molto e manifestava segni di tristezza”
Situazione di certo non idilliaca nemmeno dal punto di vista prettamente didattico: la classe era, inevitabilmente, molto indietro col programma, viste le palesi difficoltà anche solo comunicative che gli insegnanti riscontrano in una classe formata da soli stranieri.
Una follia, un delirio palese e oggettivo su cui bisogna però stare attenti a porre l’accento per paura della psicopolizia del politicamente corretto che, magari anche qui, nella reazione sacrosanta di una madre, potrebbe vederci un episodio di razzismo. “Io non ho paura dello straniero ma vorrei che la scuola funzionasse correttamente” è costretta a giustificarsi Rosaria.
Col cambio di scuola, comunque, i risultati sono decisamente cambiati; sorride ora, la piccola, già integrata nella nuova classe. Se da un lato non può che consolarci la sua ritrovata tranquillità, dall’altro la preoccupazione per una situazione sempre più diffusa non può farci dormire sonni tranquilli. Cosa ci si immagina accadrà in futuro con questo modello di società? Come si spera che questi ragazzi possano, un giorno, diventare parte integrante del nostro tessuto culturale se vengono spinti a formare “clan” già da bambini?
Questi sono gli stessi fanciulli a cui ci si rivolge, quando tanto a cuore in mano (e sicuramente in maniera disinteressata, non pensate a male) si parla di Ius soli e di integrazione da riconoscere. Sfugge un particolare fondamentale: prima di essere riconosciuta, c’è bisogno che un’integrazione ci sia. Se questo è il modello c’è poco da star sereni.
(di Simone De Rosa)