La crisi dei partiti conservatori tradizionali

Come già osservato nelle passate settimane da analisti politici e giornalisti, il primo dato significativo che emerge studiando i risultati delle ultime elezioni, tenutesi in diversi paesi europei, dalla Germania, al Regno Unito, alla Norvegia, è la rovinosa crisi dei tradizionali partiti di orientamento socialdemocratico. In Francia, i socialisti al potere hanno conseguito il peggior risultato della loro storia, il 6% del candidato Benoit Hamon; nel Regno Unito, il fervore con cui Jeremie Corbyn ha animato l’intera campagna elettorale non è bastato ai laburisti per imporsi sui conservatori, nelle prime consultazioni post-Brexit.

La lista dei fallimenti prosegue poi con la déblacle della SPD di Martin Schulz in Germania, anche questo ai minimi storici con un magro 21% e quella dei progressisti norvegesi, in uno dei paesi scandinavi che ha visto nascere e svilupparsi l’ideale socialdemocratico europeo.
A questi risultati si aggiungono la crisi di identità del centrosinistra “nostrano”, vittima di innumeri e repentini strappi e scissioni, e quella del PSOE spagnolo di cui abbiamo già scritto.
Si tratta di una controtendenza, rispetto a quanto vissuto alla fine degli anni Novanta e agli albori del Millennio, il periodo d’oro del progressismo occidentale.

Erano gli anni in cui molti guardavano con entusiasmo alle parole di speranza di quel giovane presidente venuto dall’Arkansas, Bill Clinton, che esordì la sua carriera politica con uno storico discorso intitolato proprio “I still believe in a place called hope”, e del suo “soulmate” Tony Blair, fautori di una “terza via” politica che coniugasse il rispetto dei diritti dei lavoratori allo slancio verso il libero mercato, negli anni successivi al crollo del Socialismo Reale. Altri simboli di questa nuova visione ideologica erano Zapatero e Schröder; tutti personaggi usciti dalla scena politica come, del resto, sono tramontati i principi per cui si sono battuti e hanno applicato con alterne fortune.

Oggi, a queste formazioni si sono sostituite al potere quelle “popolari” di centrodestra, in modo abbastanza egemone nel vecchio continente. Difatti, i successi elettorali di Theresa May, Mariano Rajoy e dell’ “invincibile” Angela Merkel potrebbero far pensare di trovarsi nell’apogeo del potere conservatore, proprio come già goduto dagli storici rivali di sinistra; ma siamo davvero così sicuri che questi se la passino così bene? Per risolvere l’interrogativo, è bene non focalizzarsi esclusivamente sui responsi delle urne, che raccontano solo una parte di una realtà più complessa.

Partiamo, ad esempio, dalle più recenti consultazione, quelle tedesche. Senza alcun dubbio, la vittoria della CDU di Angela Merkel è stata schiacciante e dimostra come il popolo teutonico confidi ancora nello status quo cristiano-democratico radicatosi ormai da ben dodici anni nel palazzo della cancelleria federale.

Tuttavia, anche il partito della “Muttie” ha subito un brusco calo rispetto al 2013, passando dal 41,5% al 32,9% , permettendo alla destra radicale di Alternative für Deutschland di fare incetta di voti nel suo bacino di riferimento. Molti tedeschi conservatori, soprattutto in quello che un tempo fu il territorio della DDR, sembrano non aver perdonato alla Merkel la politica dell’accoglienza dei migranti cominciata nell’estate 2015 e l’apertura ai matrimoni gay, riguardo cui la legge è stata varata lo scorso giugno.

La cancelliera ha dichiarato di aver votato “no” alla proposta di legge, ma lasciando la libertà di scelta ai parlamentari del suo partito, ha suscitato le simpatie di una parte di quell’elettorato progressista non entusiasmato da Schultz e dalla Linke, perdendo però, appunto, il sostegno di quelli che vedevano nella CDU un baluardo dei principi conservatori.
Se lottare per battaglie comunemente di sinistra ha dimostrato un grande pragmatismo politico da parte di Frau Angela, è anche vero che questa presa di posizione ha fatto vacillare il corollario ideologico del suo movimento, decretandone un serio limite.

Anche in Spagna, la condizione in cui versa il Partido Popular, al governo e ancora primo partito in molti sondaggi, non è delle migliori. Il premier Rajoy ha recentemente dovuto affrontare la più grave crisi di politica interna nella storia post-franchista del paese; parliamo, ovviamente, della questione catalana. Molti politologi hanno accusato il presidente spagnolo di aver mal gestito la crisi tra Madrid e Barcellona, constestandogli di avere, anzitutto, ignorato le richieste di maggiore autonomia fiscale avanzate mesi addietro dalla regione, poi di aver chiuso il dialogo con gli indipendentisti.

Impedendo lo svolgimento del referendum di domenica 1 ottobre, Rajoy ha deciso di attenersi ai principi della costituzione, che dichiara illegali propositi di questo tipo; tuttavia, imboccare la via diplomatica con il presidente della generalitat Puigdemont avrebbe salvato la sua reputazione agli occhi di molti cittadini, mentre dopo i recenti avvenimenti, il numero di spagnoli insoddisfatti dell’operato del premier è aumentato considerevolmente.

La crisi del PP non è dunque di carattere ideologico, come in Germania, piuttosto politico, ma questo potrebbe comunque creare problemi al partito in vista delle prossime consultazioni, a vantaggio soprattutto dell’antipolitica di Podemos. C’è anche un paese in cui le limitazioni ideologiche e politiche del centrodestra coincidono perfettamente: è il Regno Unito governato dai Tories di Theresa May. La politica di Eastbourne è salita al potere nel giugno del 2016, subentrando all’europeista dimissionario David Cameron, dopo la vittoria dei “leave” al referendum.

La May si è trovata a gestire un paese e un partito spaccati a metà tra europeisti e sovranisti senza riuscire a far coesistere queste due entità così discordanti né in nome di un comune sentimento patriottico né di un compromesso mai arrivato, con il risultato che oggi i sudditi di Sua Maestà guardano con scetticismo alle capacità del premier di condurre il Regno Unito fuori dall’Unione Europea e di adottare con successo la cosiddetta Hard Brexit.
Pochi giorni fa, il primo ministro ha presenziato alla conferenza del Partito Conservatore tenendo un discorso che negli intenti voleva dissipare i malumori del paese, ottenendo in cambio, tuttavia, solo derisione sui social e sulle pagine dei giornali, ulteriore segno del distacco tra il suo estabilshment e il popolo britannico.

In Italia, invece, è ancora presto per giudicare se le nostre formazioni conservatrici siano davvero in crisi, da una parte perché per le prossime consultazioni politiche si dovrà aspettare ancora il 2018, dall’altra perché resta un’incognita il destino politico di Berlusconi che, fino ad oggi, ha costituito l’essenza di tutta l’area moderata. Tuttavia, secondo recenti sondaggi l’eventuale coalizione tra Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia sarebbe in forte ascesa, così come il candidato forzista per le elezioni regionali in Sicilia, Nello Musumeci, è più apprezzato dagli elettori rispetto ai principali avversari (al 37%, contro il 32% del grillino Cancelleri e il 18 % di Micari).

Insomma, la situazione italiana è un campo ancora apertissimo; sicuramente, però, gli esiti dei referendum congiunti in Lombardia e Veneto per l’autonomia fiscale del prossimo 22 ottobre, voluti proprio dalle giunte di centrodestra di Maroni e Zaia, daranno un primo segnale per trovare una risposta al mistero, e quanto accadrà ai conservatori italiani sarà determinante per poter parlare ufficialmente di crollo delle forze popolari occidentali.

(di Alessandro Giuliano)