Il rancio: il cibo dei soldati italiani nella Seconda Guerra Mondiale

Il rancio: il cibo dei soldati italiani nella Seconda Guerra Mondiale

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Le guerre si vincono con le armi, ma queste armi sono sostenute e utilizzate da uomini. L’importanza di avere questi uomini in salute e ben nutriti è cruciale nel decidere le sorti di una battaglia. Se escludiamo la Russia, l’esercito italiano si trovò a combattere quasi tutte le sue battaglie in forte vantaggio numerico, tuttavia i risultati furono, se non in sporadiche occasioni, scarsi; se da una parte ciò dipendeva da una oggettiva arretratezza dell’industria nazionale e nelle difficoltà della stessa nel produrre equipaggiamento all’avanguardia e in numeri sufficienti rispetto alle grandi potenze come l’Inghilterra, un gigantesco problema derivava dalla gestione del pasto del soldato, la cui somministrazione fu quasi sempre irregolare e il cui apporto calorico era una frazione rispetto a quello degli avversari. Il pranzo del soldato italiano durante la guerra constava di una tazza di caffè nero con talvolta due fette biscottate, una gavetta di pasta o riso in brodo con un pezzo da 375 gr di lesso – che può sembrare una buona quantità, ma il peso comprendeva anche l’osso, che quindi era scartato. La cena solitamente era costituita da una minestra di verdure o legumi.

Se questo pasto poteva comunque essere considerato sufficiente per le retrovie, in situazione di combattimento la fame era garantita, soprattutto per la quasi totale assenza di integrazioni alimentari ipercaloriche (cioccolato, caramelle, caffè o the, pancetta..). Queste integrazioni erano rilasciate dagli ufficiali a loro discrezione, in momenti considerati particolarmente difficili per la truppa. In questi casi eccezionali essi autorizzavano la distribuzione ai reparti di spirito alcolico (3 cl, secondo disponibilità poteva essere cordiale, brandy o anice), marmellata (50 gr)  e cioccolato (25 gr). Alpini e bersaglieri, come già succedeva durante la Prima Guerra Mondiale, ricevevano razioni leggermente più abbondanti, giustificando il fatto con la  maggiore fatica che sostenevano i reparti e le condizioni climatiche in cui dovevano operare.

Non esistevano vere e proprie cucine da campo mobili, e per la preparazione del rancio ancora venivano utilizzate le enormi marmitte della metà dell’ottocento. Era preparato nelle retrovie e, come durante la Grande Guerra, veniva poi portato a dorso di mulo o a piedi al fronte, giungendo spesso freddo e insozzato dalla polvere, questo ovviamente dando per scontato (e non lo era) che il soldato incaricato della consegna non avesse incontrato durante il tragitto un cecchino, un aereo nemico in perlustrazione o una salva d’artiglieria. Le stufe di queste cucine inoltre, a differenza di quelle alleate, non erano studiate per funzionare a nafta o benzina, bensì erano alimentate a legna, spesso di difficile reperimento in loco (pensiamo ad esempio al fronte libico). Quando il già scarso rancio non arrivava affatto al fronte, era necessario affidarsi alla razione di emergenza, o “pasto di riserva”, che per il soldato italiano consisteva in due gallette di granturco per un totale di 400 gr e carne in scatola, che i soldati in nord Africa  scherzosamente chiamavano “Arabo Morto”, a causa della iniziali sulla latta “A.M.” (Amministrazione Militare), il che la dice lunga su quanto queste scatolette dovessero essere apprezzate.

Scrive Gaetano Cosmo, 5° reggimento d’artiglieria d’Armata, di stanza in Albania: “un Giorno, io e il mio amico Galli di Como montavamo la guardia quando fummo spettatori di un funerale che aveva luogo in un cimitero vicino. Gli Albanesi portavano cibo al morto, invece che fiori. Quando i parenti del deceduto de ne furono andati, andammo sul luogo della sepoltura e rubammo il cibo, perché non ne potevamo più’ delle solite razioni dell’Esercito”.

Nello stesso periodo, negli Stati Uniti, venivano distribuite ai soldati le prime razioni MRE (meal ready-to-eat), un pacchetto contenente tutto ciò che poteva servire al milite nelle successive 24 ore: un fornelletto, diverse scatolette, minestra liofilizzata, caffè, sigarette, fiammiferi, carta igienica, gomma da masticare, gallette, cioccolato, caramelle. Solo l’acqua andava reperita in loco. Dove si mangiava decisamente meglio era invece nelle mense riservate agli ufficiali: in tutti gli eserciti la mensa degli ufficiali era diversificata e in un certo senso migliore rispetto a quella dei soldati, ma solo nell’esercito italiano, questa differenziazione si protraeva fin sulla linea del fronte. A nessun ufficiale della plutocratica Albione sarebbe mai venuto in mente di mangiare cose diverse rispetto ai suoi compagni d’armi, turbandoli e facendo crescere in loro invidie e malcontento.

Tuttavia nel Regio Esercito, evidentemente anche nel periodo storico che potremmo considerare meno consono, la regola del “io so’ io e voi non siete un cazzo” era ancora ben salda. Lo storico statunitense MacGregor Knox ha trovato le risposte dei comandi della II armata in Jugoslavia a un sondaggio sull’abolizione delle mense riservate agli ufficiali, promosso nel 1941 dallo stato maggiore su richiesta di Mussolini. Se da una parte i comandanti e gli ufficiali più’ alti in grado si dissero favorevoli per ragioni logistiche, dall’altra la massa degli ufficiali da campo si dimostrò molto poco incline ad acconsentire, adducendo agghiaccianti motivazioni come la perdita di rispetto da parte dei sottoufficiali e della truppa o il fatto che “gli ufficiali non sono in grado di svolgere le proprie funzioni con il semplice rancio del soldato”. La realtà era che il semplice rancio del soldato non bastava. Punto.

(di Giacomo Alberti)

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