Perché la guerra preventiva contro la Corea è impossibile

Le minacce di Donald Trump nei confronti della Corea del Nord sono destinate ad essere aria fritta per diversi motivi. Innanzitutto Seul è a 56 km dal confine nordcoreano, quindi ad un tiro di schioppo dall’artiglieria convenzionale di Pyongyang. Un attacco a Kim Jong-un avrebbe, giustamente, gravi ritorsioni sulla capitale sudcoreana poiché, al netto del milione di soldati e riservisti nelle forze armate, sarebbe fisicamente ed umanamente impossibile eliminare i 21.000 razzi in dotazione alla Corea del Nord con un solo strike o attacco preventivo da parte di Washington.

Inoltre confina con la Cina, che sarebbe legittimata a stritolare i 1.200 miliardi di debito pubblico USA sotto il suo controllo a fronte della minaccia militare a stelle e strisce che si verrebbe a costituire sull’uscio della porta. Indi per cui, sul tavolo, rimane solo l’opzione diplomatica per risolvere la questione nordcoreana; riduzione delle sanzioni a fronte di un progressivo abbandono del programma nucleare, che Pyongyang ha sempre utilizzato in funzione di deterrenza alla luce del trauma collettivo subito durante la Guerra di Corea, con un 1/3 della popolazione sterminata e McArthur desideroso di fare il remake di Hiroshima e Nagasaki.

Al contrario della massiccia propaganda denigratoria presente ormai su ogni quotidiano, infatti, la Corea del Nord, almeno stando alle dichiarazioni di rito, oltre ad aver firmato il trattato “no first use”, è sempre stata favorevole alla denuclearizzazione della penisola a patto che gli USA si ritirino dalla Corea del Sud, smantellino le loro basi militari ivi presenti e smettano di fare massicce esercitazioni militari a ridosso del confine. Inoltre si è detta pronta a porre fine allo status di guerra in vigore dal 1953 in modo da usufruire delle possibilità di poter commerciare col mondo esterno.

Infatti, nonostante le pesanti sanzioni ONU, vi sono alcune aziende in regime di joint venture che stanno investendo massicciamente sul suo territorio affinché diventi idonea per la nascente Belt and Road Initiative: una nuova strategia commerciale teorizzata da Pechino, dove gli investimenti cinesi, da qui ai prossimi dieci anni, in accordo con il Cremlino, rafforzeranno il peso geopolitico dell’Unione Eurasiatica, aprendo una prateria all’instaurazione di una sempre più consistente realtà multipolare che vada a scardinare l’unipolarismo occidentale e legittimando Kim Jong-un a snobbare qualsiasi minaccia atlantica, perché forte della protezione sorta dal notevole peso politico-economico che Xi Jinping assumerà una volta concluso tale progetto. Washington le vuole suonare, ma tornerà a casa suonata.

(di Davide Pellegrino)