Charlie muore, la cultura della morte trionfa

Si può portare il proprio figlio nel luogo della cura e trovarlo ostaggio di un’idea, incatenato a una sentenza? Si può accettare l’idea che la vita se non è sana non vale niente, che la medicina debba necessariamente guarire e non anche alleviare? Si può accettare, nel tempo del progresso e della tecnologia, che la condizione di un bambino, già inguaribile, venga resa anche non migliorabile dal decorso del tempo in attesa di una pronuncia di un tribunale cercata da un ospedale che vuole la pezza d’appoggio giuridica per legittimare l’abbandono del tentativo di cura ulteriore?

La vicenda di Charlie Gard e dei suoi genitori interessa tutti noi. Noi col nostro desiderio di eternità, bellezza, talora perfezione, noi col nostro rincorrere la forma smagliante e la maggiore felicità, e questi interrogativi devono appartenere a tutti, scuoterci, riecheggiare nella nostra mente tutte le volte che stiamo per confezionare una nostra idea di mondo e di umanità. Parola, quest’ultima, quanto mai abusata e svuotata, o forse e meglio, riempita di significati che finiscono per allontanarla dalla sua essenza integrale.

Il terribile caso che ha riguardato la famiglia Gard dice molto del nostro tempo, costituisce uno spartiacque, un anno zero cui, da oggi in poi, ritorneremo molte volte. Intanto, ci insegna che nell’Europa dei diritti, la vita non è “diritto umano” sufficiente, in quanto la sua nozione ‘biologica’ è stata sostituita da quella partorita nei laboratori progressisti.

Occorre infatti “la vita degna”, parametro primariamente determinabile – almeno a detta dei radicali – ad opera degli interessati quando sono ‘lucidi’, poi interpretabile ad opera dei parenti prossimi quando gli interessati non possano più parlare per loro. Si ricordi, come potente testimonianza, il caso di Eluana Englaro, la cui volontà fu “ricostruita” e applicata dopo ben 17 anni di stato vegetativo, cosciente o non cosciente non ci è dato saperlo, ma margine temporale troppo importante per non interrogarsi sull’eventuale mutata ‘visione del mondo’ della donna.

In tema di fine vita, scrivono i giornali, la vicenda Gard costituisce precedente. Vero, ma non nel senso di coerente precedente giuridico, perché sarebbe un precedente distorto. E, quando sicuramente sarà invocato come precedente, si compirà un richiamo improprio trasbordante di malafede.

Il piccolo Gard non era in fin di vita, ma semplicemente malato, molto malato, ma vivo. A Charlie non è stata applicata la ‘dolce morte’. Charlie ha subito una esecuzione di Stato a puntate.

Non è eutanasia, infatti, perché il diretto interessato non si è mai potuto “determinare” in tal senso, né la sua volontà poteva essere ricostruibile, e nemmeno quella dei suoi genitori si muoveva in tal senso, anzi era diametralmente opposta.

Non era in fin di vita e i danni cerebrali di cui sarebbe stato affetto sono risultati essere puri blateramenti. Il medico americano, giunto di proposito, ha trovato dei muscoli non rispondenti, perché non più trattati medicalmente da marzo scorso, quando l’ospedale si era rivolto ai tribunali inglesi.

Oggi, ne deduciamo, il concetto di dignità è stato pericolosamente edulcorato dalla propaganda pro morte, fino a modellarsi in “dignità contro la vita” e trasformarsi in “parametro di Stato”, dettato dallo Stato, e sancendo nella sostanza la messa al bando del minorato e la conseguente esclusione dello stesso – richiamando Giorgio Agamben – dalla vita ‘politica’, condizione che ne autorizza l’esclusione consequenziale dalla vita biologica. La vita biologica non è poca cosa, non può più snobbarsi, sia quando sia piccola vita in divenire, sia quando si avvii al tramonto.

Il recinto entro cui starebbe tale vita degna non sembra però essere quello della legge parlamentare. Compete ai giudici stabilire i confini di questa dignità, compete alla giustizia umana, e ciò, nella vicenda di Charlie, avviene in modo certamente singolare, sconcertante, con riferimenti lombrosiani a parametri ridicoli, quali la misura del cranio e altre oscenità, come altrettanto agghiaccianti sono le dinamiche della morte, o meglio, dell’esecuzione.

Charlie doveva morire, e doveva morire nel luogo in cui sicuramente morirà, quindi, non a casa, dove i suoi genitori avrebbero potuto attaccarlo a un ventilatore e allungare la sua vita, onorarla con le cure che, a chi ama, non costano nulla, mentre ad un ente ospedaliero costano troppo. L’esecuzione della sentenza doveva essere garantita a monte. Il ventilatore cui stava attaccato, poi, avrebbe avuto la responsabilità di non entrare dalla porta di casa dei Gard – giudici, giustamente, se ne preoccupano – quindi ne è stato escluso il trasporto.

Si possono ascoltare di queste argomentazioni dinanzi ad un cuore di un neonato che batte, batteva nell’oggi, in questo tempo, in quest’Occidente? Io credo di no. Io credo che si debba rifiutare anche solo di seguire tutti i ragionamenti che fanno di Charlie un pidocchio, una mosca, una zanzarina fastidiosa.

Si dica, invece, e chiaramente, che ci sono status “punibili”, alla stregua delle condotte. Si dica chiaramente che ci sono condizioni naturali – la malattia, la deformità (la circonferenza cranica di Charlie non era normale, per Zeus!) – che coincidono con l’essere portatori di una colpa intrinseca, richiamando Giorgio Agamben, come quella dell’ebreo durante il nazismo, “pidocchio” appunto per i gerarchi, colpevole di essere semplicemente ebreo. La messa al bando della modernità, non è fondata sulla razza, ma su una nuova condizione di inferiorità, non concessa dalla società del super benessere.

In Vite di scarto, Zygmunt Bauman, sviluppa questa impostazione collegandola alla più grande sventura dei tempi moderni: il capitalismo. «Il bene primario della società dei consumatori sono i consumatori; i consumatori difettosi sono il suo passivo più irritante e costoso».

Charlie – dicono i giudici – non sarà mai un bambino normale perché difettoso, e perché, secondo statistiche, non potrà fare quello che fanno gli altri bambini e questo non è assolutamente accettabile!. Non ci sono poi soggetti ‘non imputabili’, ma siamo tutti “aggredibili” dalla mentalità dello scarto, finanche gli infanti, e soprattutto gli anziani, che non hanno più i genitori a rivendicarne per istinto la sacralità della vita.

Sembra accettato che l’autodeterminazione sia pacificamente sostituibile appunto dall’interpretazione, la quale spesso però assume i contorni della determinazione conto terzi, e poco c’è da aggiungere circa l’ingiustizia che siffatto meccanismo comporta. A forza di esaltare l’individualismo e una pseudo libertà, siamo giunti a sostituirci onnipotentemente all’individualità dell’altro, eppure, «quello che tutti, a quanto pare, temiamo – scrive Bauman – (…) è l’abbandono, l’esclusione, l’essere respinti, sconfessati, scaricati, mollati, spogliati di ciò che siamo».

Charlie, però, siamo certi, non si è sentito solo, perché in moltissimi lo hanno sostenuto. È stato amato, da chi lo ha messo al mondo accogliendolo come dono e da chi ha combattuto e pregato e sperato per lui, considerando la sua vita, di uomo, molto più che perfetta. È questo l’unico aspetto veramente e unicamente aderente al concetto di umano di questa storia che qui inizia.

(di Mariangela Cirrincione)