Perché, dopo i fatti di Manchester, guardare all’Iran è doveroso

Quando il cittadino occidentale sente la parola “Iran” subito, nella sua mente, appare l’immagine veicolata dal mainstream; il Paese degli Allahu Akbhar a Ruollah Khomeini dopo il suo ritorno dall’esilio parigino, delle “condanne a morte per omosessualità” – nonostante siano di fatto abolite dal 2004 secondo la convenzione ONU per i diritti umani – e delle minacce con il nucleare, sebbene quest’ultimo abbia solo ed esclusivamente la funzione di deterrenza dai progetti imperialisti a stelle e strisce.

La realtà è molto più complessa di così, ovviamente. Dietro i turbanti bianchi degli Ayatollah c’è un Paese che sente il desiderio di modernizzarsi, e ciò è dimostrato dai risultati alle elezioni presidenziali della settimana scorsa; infatti, per quanto la Rivoluzione del 1979 sia stata fondamentale dal punto di vista della riappropriazione della sovranità nazionale e del progresso socio-economico, la seconda vittoria di Hassan Rouhani segna una discontinuità ormai definitiva.

Il Paese abbandona ufficialmente la linea di non permeabilità interna ai conservatori in favore delle aperture verso investimenti e capitali esteri. Occasione imperdibile, d’altronde; la vicinanza al Blocco Eurasiatico fa stimare una crescita enorme del PIL nel breve periodo. Attenzione, con questo non si vuole dire che le ingerenze più oltranziste siano scomparse, tutto il contrario; il modesto consenso al candidato conservatore, Ebrahim Raisi, oltre a segnare ancora un approccio forte alla dottrina islamica, è sintomo del mai cessato timore di una parte di popolazione di subire un’invasione, dato l’accerchiamento statunitense in Afghanistan e in Iraq.

Tuttavia, sono sentimenti destinati a scomparire; le fasce più laiche e moderate della società iraniana, oltre a possedere qualità come virtù, calma, pazienza e lungimiranza strategica, sono permeate da quel revanscismo imperiale mascherato dallo sciismo duodecimano che garantisce loro quella tenacia necessaria a mantenere inalterata la sua massiccia influenza in Medio Oriente. E ne hanno ben donde; è all’Iran che Israele deve imputare la sua prima sconfitta militare dalla sua nascita nel 1948, causata dalla tenace resistenza di Hezbollah in Libano durata 18 lunghi anni, dal 1982 al 2000.

Oggi, quel lembo di terra, insieme alla Siria di Bashar al-Assad, è l’avamposto iraniano per eccellenza nonché il più grande capolavoro di geopolitica perché ha permesso al Paese di sviluppare nuove tecniche di guerriglia, quelle del logoramento, avute modo di essere sperimentate durante il conflitto del 2006 contro l’eternamente nemica “entità sionista”, e nuovi armamenti come i missili Silkworm attualmente puntati sul Golfo Persico capaci di incenerire Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e tutta la compagine finanziatrice del terrorismo salafita nonché grande amica di questo Occidente decadente.

È grazie a questa consapevolezza di potenza militare se l’Iran, dopo il crollo del regime di Saddam Hussein in seguito all’aggressione terroristico-predatoria a stelle e strisce, è stato in grado di estendere la sua influenza in Iraq, imponendo la presenza sciita ai piani alti – basti vedere Nuri al-Maliki -, allungando le mani sui giacimenti petroliferi del sud e finanziando, con l’ausilio dei Pasdaran, le milizie di Mahdi, le quali, oltre a contrastare al-Qaeda, tennero impegnate gli USA sia sul piano economico che del sacrificio umano, creando loro una enorme crisi in politica interna.

Insomma, una mossa vincente che, oltre ad assicurare all’Iran il primato petrolifero nel lungo periodo – data la ricchezza di idrocarburi -, ha mostrato al mondo la fragilità del mondo sunnita a fronte dello sciismo, il cui dominio si è purtroppo arrestato nel 2014 con la proclamazione dello Stato Islamico da parte di Abu Bakr al-Baghdadi, visto da molti analisti politici come la riscossa sunnita alla perdita di influenza in Medio Oriente.

Normale, quindi, che l’Iran gli si stia opponendo con tutte le sue forze; il sospetto della Guida Suprema, Alì Khamenei, che si tratti di un progetto finanziato dalle petrolmonarchie del Golfo in funzione anti-iraniana atto a creare il caos è più che fondato, essendo la Siria la dimostrazione più palese. Se Bashar al-Assad è stato in grado di mantenerne il controllo, a fronte di un’aggressione ordita dall’esterno con l’ausilio del jihadismo come braccio armato che ne avrebbe causato la balcanizzazione e l’implosione con conseguenze simili a quelle irachene e libiche, è proprio grazie all’interventismo iraniano e russo.

Se si vuole lottare efficacemente contro il terrorismo dopo i fatti di Manchester e stabilizzare gli equilibri geopolitici in Medio Oriente è doveroso, quindi, mettere muri ai cammellari Saud e costruire ponti con il “nemico” data la sua innata predisposizione ad imporre un sistema di ordine.

(di Davide Pellegrino)