Diritti umani e interesse nazionale: la rivoluzione di Tillerson

Se l’amministrazione Trump non sta promuovendo una radicale rottura degli schemi, bisogna tuttavia constatare che una “rottura” è tuttavia in atto. Schemi che resistevano da decenni, in primis quelli della politica estera.

Certo, Trump ha mostrato i muscoli in Siria con un’azione sconsiderata, e in Corea sta mischiando un gioco al rialzo con una insolita strategia di accomodamento, suggerendo la sua volontà di incontrare Kim Jong-Un. Ma la revisione strategica è realmente in atto, questa volta partita da Rex Tillerson.

Il Segretario di Stato, ed ex CEO della Exxon, ha dichiarato pubblicamente: «Il nostro compito non è dettare agli altri come vivere, ma costruire una coalizione di amici e partner che condivida l’obiettivo di combattere il terrorismo e portare sicurezza, opportunità e stabilità in Medio Oriente».

Ha poi aggiunto una considerazione essenziale, rivoluzionaria: «La politica estera non sarà subordinata ai diritti umani». A ciò, Tillerson ha aggiunto che la priorità sono la sicurezza e gli interessi nazionali. Una svolta che concretizza, almeno a livello teorico, l’”America First” della campagna elettorale di Trump.

La nuova linea strategica di Rex Tillerson sicuramente non poteva risultare inattesa. Il Trump presidente, non quello della campagna elettorale, aveva dato dimostrazione di non considerare i “diritti umani” (come intesi dagli Stati Uniti) come una pietra di paragone o di discriminazione nei rapporti diplomatici: basti la cordiale visita di al-Sisi a Washington, oppure l’invito rivolto al Presidente filippino Duterte (tanto vituperato da Obama), o, ancora, il fatto che nell’incontro con Xi Jinping gli USA non abbiano mai fatto menzione di questioni diritto-umaniste.

In effetti, era difficile attendersi altro da Donald Trump: il Presidente favorevole al waterboarding, che ha mostrato svariate volte di apprezzare metodi duri, controversi (se non proprio autoritari), e vera e propria ammirazione per leader non in linea col diritto-umanismo moderno, non poteva certamente agire diversamente. Questa dichiarazione di Tillerson certifica un dato di fatto, un punto centrale dell’approccio della nuova amministrazione che già era in fieri.

Al di là della opinione che si può avere su Trump e il suo operato, la linea espressa da Tillerson (siamo di fronte ad una “Dottrina Trump”?) è una radicale rottura con una strategia ingarbugliata ed incoerente che si protraeva da 40 anni.

Precisamente, da quel Jimmy Carter che venne eletto profondendo discorsi moralisti e sui diritti umani come nuova base della politica estera americana – e poi sostenne apertamente lo Scià di Persia e gli offrì soggiorno dopo la sua cacciata. Per non parla del suo successore, quel Reagan per cui il diritto-umanismo era sinonimo di anticomunismo – basti ricordare la “Dottrina Kirkpatrick”, ambasciatrice USA all’ONU, che sosteneva la necessità americana di sostenere tutti i regimi autoritari nel mondo purché si opponessero al comunismo.

E da quegli anni, che scacciarono malamente la Realpolitik limitazionista di Nixon e Kissinger che aveva dato così buoni risultati, scambiandola con un farsesco e incoerente umanitarismo, tanto infarcito di retorica quanto di vuotezza contenutistica, giungiamo agli ultimi Presidenti, ancor più mediocri esponenti di quell’umanitarismo.

Clinton e il suo enlargement, ad esempio, e il suo allargare “pacificamente” il perimetro delle democrazie e dei diritti umani (ovviamente non nella ex Iugoslavia), Bush e il suo umanitarismo neo-conservatore illuso di poter far collidere rispetto dei diritti umani e guerre, fino ad Obama, debole e capitolazionista coi forti, forte e aggressivo coi deboli, capace di ripercorrere tutte le contraddizioni del diritto-umanismo americano reaganiano (la mano tesa coi regimi dittatoriali filo-americani, la strumentalizzazione dei “diritti umani” con gli avversari USA, anche qualora fossero democratici) e con l’interventismo bushiano (non è per i “diritti umani” dei libici che siamo intervenuti in Libia?).

Non è ancora dato sapere quale strategia sarà adottata da Trump, visto i continui zig-zag e i cambiamenti improvvisi di linee (e se proprio tutto questo fosse la sua strategia?), ma, se l’establishment e il suo mondo sono ancora intoccabili, bisogna però riconoscere che in certi ambiti la nuova amministrazione sembra volenterosa di cambiare indirizzi e rituali che sembravano fino a ieri immutabili.

(di Leonardo Olivetti)