I rapporti russo-armeni nel mirino delle ONG atlantiste

È difficile sottovalutare la grande importanza geostrategica che l’Armenia riveste per la Russia. Sebbene sia un paese di dimensioni estremamente ridotte e non abbia significative risorse energetiche (a differenza del confinante Azerbajdzjan), l’Hayastani Hanrapetoutjoun (il nome originale di questo paese) è l’unico reale alleato di Mosca nel corridoio transcaucasico e ne assicura una sia pur parziale continuità territoriale con i grandi alleati mediorientali, in primo luogo l’Iran.

Si può generalmente dire che l’Armenia, insieme alla Bielorussia, sia l’unico alleato ufficiale della Russia nella fascia sud-occidentale occupata dalle ex repubbliche sovietiche. In altri termini, per i registi delle rivoluzioni colorate l’Armenia e la Bielorussia sono i soli tasselli rimasti a non permettere un completo accerchiamento regionale della Russia ad ovest e a sud.

E’ chiaro che gli USA, perfettamente consapevoli di questo fatto, si stiano sforzando di incrinare i rapporti russo-armeni sia attraverso un’intensa attività diplomatica (dopo Baghdad, l’ambasciata statunitense di Erevan è la più grande al mondo) che, soprattutto, tramite l’attività corrosiva delle cosiddette organizzazioni non governative che, non a caso, sono numerosissime in Armenia.

Ricordiamo tra le più importanti l’USAID (attivo nel decennio 1990-2000), l’EPF (Eurasia Partnership Foundation), il NED (National Endowment for Democracy), la londinese DFID (Department for International Development). La quantità delle ONG occidentali impiegate in territorio armeno è tuttavia molto più alta: secondo le stime più recenti del Ministero della Giustizia armeno, sono più di un migliaio, contro le appena 10 ONG russe.

Di regola, l’incisività dell’influenza delle ONG occidentali sulla società armena è assicurata da un continuo gettito di fondi, che permettono di infiltrare capillarmente i settori scientifici, culturali, finanziari e giuridico-civili del paese ed imporre loro un indirizzo politico utile al blocco atlantico e ai suoi clienti europei.

Al momento attuale, le ONG più «generose» sono senz’altro l’EPF, i cui fondi spesi per lo sviluppo di diversi progetti in Armenia superano ampiamente i 15 milioni di dollari, e l’OSF di Soros, che ha istituito per l’Armenia un pacchetto di fondi dell’entità complessiva di 24 milioni di dollari. A queste associazioni bisogna affiancare il NED, che tuttavia preferisce operare in Armenia tramite la mediazione di altre associazioni come l’Helsinki Association, Armenia’s Helsinki Committee, l’Helsinki Citizens’ Assembly Vanadzor Office.

Quale scopo perseguono realmente queste associazioni? Naturalmente, lo stesso scopo perseguito da tutte le rivoluzioni colorate che hanno avuto luogo nei paesi dell’ex Unione Sovietica: accerchiare e soffocare geopoliticamente la Russia con l’imposizione di regimi spiccatamente ostili a Mosca o, qualora questo raggiungimento estremo non sia possibile, impedire almeno al paese interessato di prendere parte attiva al progetto dell’Unione Eurasiatica.

In Armenia le ONG stanno lavorando principalmente in questa seconda direzione. La prima ONG ad aver sondato le effettive possibilità per la creazione di un regime anti-russo in Armenia, la AAA, fondata nel 1989 dall’avvocato statunitense di origine armena Raffi Ovanisyan e distinta da stretti contatti con il Dipartimento di Stato USA e le lobbies armene del Congresso, appurò infatti sin dagli anni immediatamente successivi al crollo dell’Unione Sovietica che erano assenti in Armenia dei fattori etnico-regionali tramite cui istituire uno stato cliente degli USA apertamente ostile a Mosca, come sarebbe invece accaduto in Georgia (con specifiche riserve) e in Ucraina.

Per comprendere quanto detto bisogna esaminare le cinque fasi di sviluppo critico delle rivoluzioni colorate nello schema di solito applicato dagli ingegneri sociali atlantici.
Prima fase: le ONG raccolgono informazioni preliminari tramite la monitorizzazione dei punti deboli del paese «ospite» (in particolare, corruzione dei vertici politici, difficoltà economiche, infrazione reale o supposta dei diritti umani).

Seconda fase: vengono scelti i leader della «rivoluzione», a cui spetta il compito di apparire alle masse come gli ispiratori autonomi e spontanei della protesta «civile». La selezione dei leader viene effettuata tramite una rigida gerarchizzazione imposta dagli organizzatori reali, ma spacciata a livello mediatico come scelta consensuale e meritocratica interna al solo movimento di protesta civile. Allo stesso tempo, vengono individuati gli elementi ostili al progetto per una loro neutralizzazione.

Terza fase: avvio macroscopico delle proteste. Attori iniziali di questa fase devono essere elementi inoffensivi, animati unicamente da istanze di progresso civile (studenti, operai). Le ONG devono propagandarne la causa all’interno e fuori del paese «ospite». Nei segmenti conclusivi di questa fase la situazione deve essere destabilizzata improvvisamente e definitivamente (violenze ai danni dei manifestanti), per precludere il pericolo del raggiungimento di un accordo tra i manifestanti e il potere.

Quarta fase: ingresso in scena di elementi militarizzati col pretesto di difendere gli elementi pacifici della protesta, che da civile diventa politica: viene richiesta la caduta del governo o del regime in carica. A tal riguardo, vengono fatte intensificare l’attività e la visibilità mediatica dei «leader» scelti nella seconda fase, a cui viene affidato il compito di coordinare le proprie azioni con le ONG e le ambasciate dei paesi committenti, nonché di preparare una base legislativa per il nuovo potere. Nei segmenti conclusivi di questa fase è prevista un’ulteriore destabilizzazione dei contrasti tramite vittime sacrificali, la cui responsabilità viene attribuita al solo potere in carica.

Quinta fase: delegittimazione definitiva del regime o del governo in carica e sua caduta. Imposizione di un regime che consegni il paese alle istituzioni atlantiche. I disordini avvenuti ad Erevan quest’estate e l’anno scorso hanno dimostrato chiaramente che in questo paese esiste l’impossibilità funzionale di passare dalla terza alla quarta fase, poiché sono assenti sia elementi nazionalisti russofobi (avendo avuto sempre l’Armenia con la Russia degli ottimi rapporti) che wahhabiti (essendo l’Armenia un paese orgogliosamente cristiano).

Naturalmente, durante i recenti scontri alcuni manifestanti hanno scandito degli slogan contro la Russia, ma si tratta di individui prezzolati ed isolati che non sono certo in grado di creare una falange armata organizzata in modo tale da preoccupare le autorità.

Per questa ragione, le ONG si sono trovate costrette a ricalibrare la propria agenda. Vale a dire: il boicottaggio sistematico dell’ingresso dell’Armenia nell’Unione Eurasiatica. Ad esempio, Avetik Ishchanyan, leader dell’Armenia’s Helsinki Committee, critica sistematicamente il presidente Serzh Sargisyan sulla base dell’interesse che quest’ultimo mostra per il progetto putiniano. Tra le sue affermazioni leggiamo: «Non è una scelta dell’Armenia. Il presidente nell’arco di un solo giorno ha deciso di consegnare il paese alla Russia. Una situazione simile si è verificata anche in Ucraina, ma lì i sentimenti di protesta si sono rivelati più profondi che da noi».

Ancora maggior zelo è mostrato dall’Helsinki Citizens’ Assembly Vanadzor Office, forse in virtù dei fondi ricevuti dal NED, Human Rights Watch, Amnesty International e l’OSF sorosiano (più di 500.000 dollari). Tra le varie perle leggiamo: «L’ingresso nell’Unione Eurasiatica è anticostituzionale» oppure «Chi non dica a Putin in visita da noi di andarsene a quel paese è un bastardello randagio, uno schiavo privo del più elementare senso di dignità».

Tale sino ad ora l’equilibrio delle forze. Non prevedo il rischio di un Majdan in Armenia. Ho già dimostrato che è funzionalmente impossibile. Tuttavia, è altissima la possibilità di un mancato ingresso di questo paese nell’Unione Eurasiatica, e si tratterebbe di un colpo durissimo per la politica estera di Mosca.

Dal momento che il Cremlino non è in grado di bilanciare la preponderante presenza delle ONG atlantiche, la via da seguire per impedire un simile esito è una sola: la Russia deve farsi garante attiva ed insostituibile degli interessi armeni nel conflitto del Nagorno-Karabach, sebbene tale scelta implichi un peggioramento dei rapporti con la Turchia, appena ristabilitisi. Electa una via, non datur recursus ad alteram.

(di Claudio Napoli)