Cecenia e persecuzioni dei gay: vediamoci chiaro

La propaganda di guerra russofoba continua. Dopo Igor Vaclavic, che i media continuano a soprannominare “il russo” nonostante le chiare origini jugoslave identificabili dal cognome, e la responsabilità russa dietro l’attentato di San Pietroburgo, sebbene il responsabile provenisse dalle enclavi wahhabite dell’Uzbekistan, oggi è il momento delle “persecuzioni dei gay in Cecenia” con la solita accusa, ovviamente tra le righe, a Vladimir Putin.

Fonti? Si va dagli attivisti LGBT a Human Rights Watch finendo con Novaja Gazeta di Dmitry Muratov. Tutte fonti affidabilissime, non c’è che dire. I primi, poiché la Russia ha vietato la propaganda omosessuale in pubblico, sono stati in grado di definirla una specie di fucina dell’omofobia nonostante Kazan, capitale del Tatarstan, sia piena di gay club, cosi come Mosca e San Pietroburgo. La seconda è una ONG diventata, essendo al soldo di George Soros, uno strumento di propaganda funzionale a rivoluzioni colorate e cambi di regime, come abbiamo visto in Ucraina nel 2014, essendo una diretta emanazione della Open Society Foundation, sempre di proprietà dello speculatore “filantropo” ungherese. La terza, invece, proviene da un oligarca riciclatosi nell’editoria, “utile idiota” dell’Occidente come Anna Politkovskaja e nostalgico delle politiche “risorgimentali” di Boris Eltsin che fecero andare la Russia sull’orlo del baratro finanziario nel 1998.

Risulta quindi chiaro l’intento dietro questa operazione mediatica; continuare l’opera di destabilizzazione della Russia dall’interno, come accaduto a fine marzo quando Alexei Navalny, il grande “oppositore di Vladimir Putin” secondo l’Occidente – nonostante guidi un partitino liberale dalle percentuali ridicole -, fu a capo di proteste eterodirette che avevano tutti i contorni delle “rivoluzioni colorate” avute in questi anni. Soltanto che non siamo tutti fessi e, chi è leggermente più informato, capisce che in questo caso qualcosa non torna; la Cecenia gode di ampia autonomia da Mosca e, nonostante il pugno di ferro di Ramzan Kadyrov, è una fucina di jihadisti che, con cadenza quasi quotidiana, ingrassano le file di ISIS e “ribelli moderati” in Siria. A Grozny, all’indomani dell’attentato contro la sede di Charlie Hebdo, ci fu una manifestazione di 800.000 persone per protestare contro le vignette su Maometto e in difesa degli attentatori.

Alla luce di ciò, non abbiamo difficoltà a credere che la persecuzione contro i gay denunciata in ogni testata cartacea e online in questi giorni sia opera di questa fetta di popolazione. La cultura islamista non è certo sinonimo di tolleranza verso l’omosessualità; nelle aree sotto il controllo dello Stato Islamico i gay vengono scaraventati dai palazzi nella migliore delle ipotesi, nella peggiore vengono fatti sparire senza troppi complimenti. In Arabia Saudita, per loro, è prevista la decapitazione in pubblica piazza. Le associazioni LGBT, quindi, dovrebbero ringraziare il cielo che a tenere un po’ a bada la situazione in Cecenia ci sia uno come Vladimir Putin, perché l’alternativa che sognava l’Occidente alla fine degli anni ’90 era simile a quella del Kosovo; un piccolo Califfato. Che bellezza, eh?

(di Davide Pellegrino)